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 2020  marzo 29 Domenica calendario

Intervista alla giurista Katharina Pistor

Criticare apertamente il sistema di potere di cui la propria facoltà e i propri studenti sono fra i massimi protagonisti è una mossa che assai pochi professori universitari oserebbero intraprendere, ma Katharina Pistor non si è tirata indietro. Docente alla Columbia Law School di New York, Pistor ha pubblicato qualche mese fa un libro accademico ma accessibile a tutti, dal titolo assai suggestivo: The Code of Capital: How the Law Creates Wealth and Inequalities ( «Il codice del capitale: come il diritto crea ricchezza e diseguaglianze», Princeton University Press). Un volume che sta attirando grande attenzione in tutto il mondo. 
Solo qualche anno fa, l’autore di un gesto simile sarebbe stato rapidamente stigmatizzato. Ma il vento sembra essere cambiato, e l’allarme lanciato da Pistor ha allertato non più solo i pensatori di sinistra, ma persino la crème dell’élite capitalista globale, il che è valso alla giurista un invito all’esclusivo Forum di Davos lo scorso gennaio. A «la Lettura» parla dall’Istituto di Studi politici dell’Università di Tolosa, ospite della cattedra Unesco «Economia e società» dedicata alla memoria di Bernard Maris, l’economista francese assassinato durante l’attacco terroristico al settimanale satirico «Charlie Hebdo» il 7 gennaio 2015. 
Che cosa intende per «codice del capitale»? 
«Quando parlo di “codice del capitale” non parlo di un processo di codificazione, ad esempio la scrittura di norme del Codice civile, ma di un processo di codifica, cioè la scrittura di un linguaggio, come il codice-sorgente in informatica. Più in dettaglio, questa codifica è il procedimento attraverso il quale certi “attributi” giuridici vengono applicati su un bene, facendo sì che si trasformi in capitale. Nel mio libro, identifico quattro di questi attributi. Primo, la priorità: il detentore del capitale ha un accesso privilegiato a una risorsa, ad esempio è quello che accade fra Cinquecento e Seicento in Inghilterra al tempo delle enclosure, quando le terre comuni passarono esclusivamente ai proprietari terrieri. Secondo, la durabilità: i diritti di priorità sono estesi nel tempo. Terzo, l’universalità: lo Stato impone il rispetto dei diritti di priorità e durabilità non solo ai contraenti di un contratto, che si impegnano volontariamente a riconoscerli, ma a tutte le persone. Quarto, la convertibilità, che è un modo per dare durabilità ai flussi di pagamento, ovvero la possibilità di convertire in futuro rendimenti incerti e rischiosi in moneta sonante». 
Chi codifica il capitale?
«La “codifica” del capitale è un processo ben più decentralizzato di quanto si pensi. Nei Paesi di diritto romano, come la Francia o l’Italia, si guarda al diritto come a qualcosa di imposto dall’alto dal legislatore. Ma persino nei Paesi di diritto romano, e assai più nei Paesi di diritto consuetudinario come quelli anglosassoni, la codifica del capitale si compie soprattutto negli studi legali privati: è là che, utilizzando elementi del diritto privato, vengono concepiti nuovi tipi di contratti, transazioni, assetti societari e patrimoniali. I “moduli” del codice del capitale, cioè i quattro attributi di cui parlavo, sono tutti creature del legislatore, ma sono a disposizione dei, e combinati dai, privati. Ad esempio, come scrivo anche nel mio libro, quando gli avvocati di alcune multinazionali hanno brevettato il Dna di alcune specie in realtà già esistenti in natura, lo hanno fatto attraverso gli strumenti messi a disposizione dal legislatore. Tentando così di trasformare una risorsa comune in un bene privato su cui chiedere royalties». 
Perché la codifica del capitale ha una portata globale?
«Oggigiorno abbiamo un sistema capitalista globale senza una legislazione globale. Ciò è possibile perché una singola legislazione nazionale è sufficiente per permettere il funzionamento del capitalismo globale se tutti i Paesi si impegnano, come attualmente fanno, a riconoscere e fare rispettare le creature legali concepite altrove. Questo fa sì che, di fatto, oggi la gran parte della codifica del capitale avvenga in due sistemi legali nazionali: l’Inghilterra e lo Stato di New York. Questi due sistemi ospitano la maggior parte delle istituzioni finanziarie globali e tutti i cento maggiori studi legali del pianeta». 
Possiamo dire che oggi i capitalisti beneficiano della protezione giuridica senza contribuire a supportarne i costi? 
«Indubbiamente. Il nostro sistema capitalista è intrinsecamente legato al potere dello Stato e alla capacità dei privati di servirsi di tale potere ai propri fini. I capitalisti si comportano da free rider, da “scrocconi”, in quanto utilizzano degli strumenti legali per sfuggire alla giurisdizione di quegli stessi Stati che li mettono a loro disposizione. Oggi è possibile svolgere tutti i propri affari in un Paese creando un’entità legale in un altro Paese, la cui regolamentazione o fiscalità sono più vantaggiose. Il che significa che, di fatto, gli Stati “svendono” le proprie leggi a tutti gli stranieri che desiderino utilizzarle perché propizie ai loro interessi. È una vera privatizzazione del diritto, che non tiene conto delle conseguenze a livello sociale». 

Non è un paradosso che le reazioni più violente contro la globalizzazione vengano proprio dagli Stati Uniti e dal Regno Unito? 
«In questi due Paesi come altrove, la gente ha la sensazione viscerale di essere stata abbandonata e di avere perso il controllo del futuro mentre al contempo i capitalisti diventano sempre più ricchi, pagano sempre meno tasse, vengono salvati con denaro pubblico in caso di crisi... e niente di ciò che fanno è mai considerato illegale. Nel Regno Unito, i politici hanno canalizzato questo sentimento contro l’Europa, dicendo che la colpa era tutta di Bruxelles... ma la gente avrebbe dovuto guardare verso Londra prima che verso Bruxelles, perché gran parte della codifica del capitale avviene nella City, dove ogni giorno legioni di avvocati approfittano della legislazione inglese per creare società off-shore nei paradisi fiscali. La reazione dei cittadini nel Regno Unito e negli Usa è comprensibile, ma rivolta verso gli obiettivi sbagliati: i colpevoli non sono le organizzazioni internazionali come l’Unione Europea o l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), piuttosto la City di Londra e Wall Street». 
Chi è responsabile di questa situazione: i legislatori, i giudici o gli avvocati? 
«Credo ci sia un’interazione reciproca di diversi fattori. Di sicuro gli avvocati, specialmente nei Paesi anglosassoni, hanno sempre giocato un ruolo centrale nella protezione degli interessi dei loro clienti. Nei sistemi di diritto consuetudinario, peraltro, i giudici diventano giudici solo dopo avere esercitato per molti anni la professione forense: sono dunque inclini a favorire le innovazioni legali e le strategie argomentative innovative... Nei sistemi di diritto romano i giudici sono burocrati che diventano giudici dopo avere seguito una formazione specifica dopo la laurea: il loro approccio è più ostile alle innovazioni legali, cosa che permette di preservare meglio la nozione del diritto come bene pubblico». 
Il suo libro si conclude con un grido d’allarme: la fiducia nella giustizia è al minimo storico in tutto l’Occidente. Viviamo in una sorta di nuovo «ancien régime», quando vigeva un sistema di privilegi irriformabile nel quale nessuno più credeva?
«Questo è il mio più grande timore. Di fatto, il nostro sistema capitalista è in contraddizione con la nozione di democrazia quale sistema che si autogoverna attraverso le leggi. Nei sistemi democratici moderni, legislatori e giudici sono indipendenti, ma responsabili di fronte alle leggi. Ciò che osserviamo oggi, tuttavia, è che alcuni privati, grazie ai loro avvocati, si arrogano il diritto di scegliere a quali leggi obbedire secondo le proprie convenienze, senza riguardo per quello che ciò comporta per il resto della società. Dobbiamo riconoscere l’esistenza di questa contraddizione. In un’economia di mercato, penso sia impossibile riuscire a risolverla del tutto. Ma quello che è sicuro è che non possiamo continuare a promuovere le pratiche estreme di codifica del capitale degli ultimi trent’anni e pretendere allo stesso tempo di essere ancora in grado di autogovernarci».

Come possiamo correggere questi squilibri ed evitare lo slabbramento del tessuto sociale, prima che sia tardi?
«Non ho soluzioni miracolose da proporre. Una delle lezioni del mio libro è che il processo di codifica del capitale è un fenomeno altamente complesso e decentralizzato. Per secoli, gli avvocati si sono specializzati nel trovare delle scappatoie per permettere ai loro clienti di aggirare i vincoli normativi e fiscali. Se vogliamo fermare questo processo ormai incontrollabile, dobbiamo adottare una strategia incrementale e chiudere loro tutte le scappatoie attualmente disponibili. Dobbiamo osservarli attentamente e trovare i punti deboli del processo di codifica, in modo da destabilizzare le loro sicurezze. Se rimpatriare soldi dai paradisi fiscali diventerà un’impresa molto più rischiosa di quanto non lo sia oggigiorno, allora forse gli evasori ci penseranno due volte prima di nasconderli laggiù per non pagare le tasse. Solo in questo modo potremo ridurre i privilegi dei capitalisti e riguadagnare un certo controllo democratico sul nostro sistema economico».