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 2020  marzo 29 Domenica calendario

Sono contento di essere vecchio

C’è paura in giro, e sarei bugiardo se dicessi che io ne sono immune. Perché ho quasi l’età del Papa e so, come tutti i miei coetanei, di essere in lista d’attesa. D’altra parte so pure che mio padre ha vissuto lucidissimo fino a 99 anni e sei mesi, mentre il mio amico Gillo Dorfles ha toccato felicemente i 107 senza perdere un colpo. L’attesa, in altri termini, può essere lunga. Così lunga che quando gli ho telefonato, all’alba di qualche tempo fa, il carissimo Salvatore, un ragazzone ottantasettenne, meraviglioso amico e grande avvocato, mi ha risposto con il fiatone (e piuttosto seccato) che stava facendo ginnastica ed era meglio sentirsi in serata perché alle otto aveva un aereo per un incontro di lavoro a Londra. Non ho fatto in tempo a replicare che già mi ha chiamato un altro amico, un architetto settantanovenne, per lamentarsi che la sua giovane moglie, trentacinquenne, aveva una seduta dal parrucchiere, e questo lo costringeva a rimanere in casa per aspettare un pacco di libri da Amazon.
Infine il mio compagno di scuola Ciccio, medico ottantunenne. L’ho chiamato per un consueto saluto. Ha risposto la moglie infuriata, perché, ha detto, quel pazzo ha avuto stanotte la pressione a 250, e ora è corso ugualmente in ospedale: non per curarsi, ma per curare, convinto che là non possono fare a meno di lui. La verità è che il mio compagno d’infanzia è stato (ed è) un medico straordinariamente bravo e appassionato: sicché quando è arrivata l’età della pensione, non se l’è sentita di andarci, preferendo arruolarsi in quei ranghi del volontariato che tappano i buchi più vistosi dell’assistenza sanitaria.
Chi immagina che i vecchi oggigiorno siano terrorizzati come conigli, in altri termini, non conosce di che tempra siano fatti gli italiani della mia generazione. Abituati a guerre e rivoluzioni, vittorie e sconfitte, pressioni e depressioni, non dico che guardino il coronavirus con indifferenza, ma certamente con un certo distacco. Perché sanno che la morte non arriva quando l’aspetti tremando, ma quando hai la forza e la fortuna di non pensarci: come questa vecchiaia che è in noi e tuttavia non ce ne accorgiamo, magari per colpa di una zia energica e possessiva.
Mi raccontava Fausto Melotti, ridendo, che Giuseppe Verdi aveva una zia dalle parti di Trento e ogni tanto, già carico di allori e di gloria, andava a trovarla per quel rispetto che i grandi vecchi osservano scrupolosamente per coloro che sono più vecchi di loro. Senonché la zia, che aveva tenuto Peppino sulle ginocchia, e adesso era felice di appoggiarsi al suo braccio sotto la pioggia, tra pozzanghere e improvvisi vuoti di marciapiede, a volte si spazientiva e lo riprendeva con parole poco adatte al genio di Busseto: «Attento dove metti i piedi, Cretinetti!».

C’è insomma qualcuno che è sempre più vecchio di noi, e questo ci dà speranza e fiducia. Come è pure possibile che l’anziano Melotti, arrivato troppo tardi al successo, parlasse della zia di Verdi per parlare di sé stesso. A lui era stata la vita a dare del Cretinetti, non certo la zia, e solo per questo manifestava una certa malinconia, tuttavia ironica e contenuta.
Non basta scrivere il Falstaff a ottant’anni per scansare i dileggi di una zia nervosa e querula. Non basta chiamarsi Picasso per evitare i malumori e le ombre della vecchiaia: giacché proprio il glorioso Picasso, ricco sfondato alla fine della sua vita, avvertiva il bisogno di tenere sotto il letto una cassa di biscotti perché la fame della sua giovinezza non tornasse mai più, neppure in caso di catastrofi e terremoti.
Nondimeno i disagi dell’età persistono anche quando la mente è vigile e ferma. Era questa l’opinione di Aldo Palazzeschi, che si sentiva invecchiare nel corpo mentre scriveva poesie non meno belle di quelle che aveva scritto da giovane. Capace di autoironia com’era, preferiva dirlo, lui laico, con le parole definitive del Cristo, socchiudendo gli occhi con la stessa perizia interpretativa di quando, da giovane, faceva l’attore con il nome di Aldo Giurlani, prima di assumere il nom de plume che l’avrebbe reso celebre tra i futuristi gagliardi e rissosi: «Lo spirito è forte, ma la carne è debole».
E giù una poesia.

Deve essere di somma soddisfazione (anche per i giovani in cerca di maestri) ricordare la poderosa vecchiezza di Sofocle, il quale, quando i figli lo portarono in tribunale per interdirlo a causa di una presunta demenza senile, si alzò in piedi e lesse ai giudici con voce fioca ma ferma i cori sublimi dell’Edipo a Colono appena composti. E vinse la causa.
Così come vinse la sfida Vitaliano Brancati quando, alla vigilia dell’intervento chirurgico che l’avrebbe ucciso, riuscì comunque a dettare, sia pure per sommi capi, il finale di Paolo il caldo, forse il suo romanzo più bello. Vinse la sfida ma perse il piacere della vecchiaia, l’infelice Vitaliano. Era uno scrittore che aveva letto molto e molto bene, e certo avrà invidiato, in quelle ultime ore, l’ultranovantenne Goethe che almeno il suo Faust era riuscito a finirlo.
Dico tutto questo perché io, personalmente, sono davvero contento di ritrovarmi vecchio. Primo, per esserci arrivato così pigramente. Secondo, perché se volessi, potrei fare finalmente quei capricci che la vita mi ha impedito di fare. Un po’ come le donne. Giacché è proprio questo un artista non troppo giovane. Una bella donna che tutti si premurano di sorreggere quando inciampa. Mi è capitato qualche settimana fa tra i ruderi romani di Brescia, la splendida Brixia, quando non eravamo ancora rinchiusi in casa e fui chiamato a salire fino alla cima del Capitolium per un sopralluogo di lavoro, e i gradini erano così ripidi che mi venne il sudore. Solo che quando la mia amica Francesca si precipitò a darmi il braccio, invece di aggrapparmi a quell’àncora di salvezza, io ebbi la pessima idea di rifiutare con un moto d’orgoglio e di stizza, come la Bella Otero che rifiuta la benda di fronte al plotone d’esecuzione. Me ne pentii amaramente subito dopo. Così che, ammaestrato da quella esperienza, mi è stato impossibile rifiutare l’invito delle autorità a chiudermi in casa con mia moglie per sottrarmi al virus.

Darsi le arie da vecchio saggio, in fondo, offre non pochi vantaggi: tra cui quello di sparare bestialità senza che nessuno osi ribattere. Questa per esempio: che è meglio vivere da giovani quando si è vecchi piuttosto che vivere da vecchi quando si è giovani. Perché giovani non si nasce, ma si diventa, come dimostra il mio amico avvocato volato a Londra per discutere la sua causa davanti a una Corte inglese.
Poi, si capisce, c’è anche qualche svantaggio: come quello di subire le mie vecchie amiche (per la verità tutte più giovani di me)...
Ma un vantaggio vero è che posso leggere, adesso che sono passati di moda, il De senectute di Seneca e Il nome della rosa di Umberto Eco, senza averne detto male a suo tempo per semplice invidia.
Un altro grosso benefit è quello che forse mi rende più fortunato di James Joyce. Lui, privo d’esperienza, fu costretto a scrivere un memorabile Ritratto dell’artista da giovane. Io, più esperto, posso scrivere un più credibile Ritratto dell’artista da vecchio senza che nessuno possa accusarmi di vanità. Perché è la vecchiaia l’età dell’arte, non la giovinezza.