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 2020  marzo 29 Domenica calendario

Duecento anni fa Ørsted scoprì l’elettromagnetismo

Copenaghen, aprile 1820. Hans Christian Ørsted, professore di fisica nell’Università della capitale danese, tiene una lezione serale ai provectiores, gli studenti degli ultimi anni. Ørsted (o, come si usa scrivere nelle lingue non scandinave, Oersted) è un fisico sperimentale di prim’ordine e un grande insegnante. Cura meticolosamente le sue lezioni (fino a cinque alla settimana) e, una volta al mese, presenta in conferenze pubbliche i risultati più recenti delle scienze naturali. Per quella sera ha progettato un elegante esperimento col quale intende scoprire se esista una relazione tra due fenomeni all’apparenza diversi, l’elettricità (il «galvanismo», si diceva allora) e il magnetismo. Davanti ai suoi allievi e a un piccolo gruppo di studiosi collega una pila voltaica a un filo metallico, che dispone poi in senso orizzontale, sospendendo parallelamente a esso, a pochi centimetri di distanza, un ago magnetico. Quando chiude il circuito, si verifica un fatto notevole: l’ago subisce una deflessione (in direzione opposta a seconda che si trovi sopra o sotto il filo). La corrente elettrica nel filo produce un effetto sul corpo magnetizzato. È la scoperta dell’elettromagnetismo – più specificamente, del fatto (precisato in seguito) che una corrente genera un campo magnetico. 
La fisica ha avuto fin dalla sua nascita l’ambizione di unificare il mondo naturale. Con Galileo e Newton furono abbattute le barriere tra fisica terrestre e fisica celeste: si capì che i fenomeni che riguardavano gli astri non erano dissimili da quelli che avevano luogo sulla Terra, e che la stessa forza di attrazione che teneva in moto i pianeti attorno al Sole era responsabile della caduta dei gravi. La legge di gravitazione universale formulata da Newton nei Principia rappresentò il primo atto di unificazione della fisica. 
Il secondo atto prese avvio proprio con l’esperimento di Ørsted e riguardò due fenomeni, l’elettricità e il magnetismo, che fino a quel momento erano ritenuti scorrelati. Venne poi Michael Faraday, che scoprì la relazione inversa tra questi fenomeni (l’induzione elettromagnetica: una variazione del flusso magnetico produce una corrente elettrica), aprendo la strada alla grande sintesi teorica di James Clerk Maxwell: tutto l’elettromagnetismo condensato in quattro semplici equazioni che trattano simmetricamente il campo elettrico e il campo magnetico – una delle più grandi conquiste del pensiero scientifico. 
Nel luglio del 1820 Ørsted, che era anche un fine umanista (un cultore di letteratura e di filosofia), comunicò la sua scoperta in latino in una lettera alla Biblioteca Universale, presto tradotta nelle varie lingue europee. Per indicare l’effetto che la corrente elettrica aveva nello spazio circostante usò il termine conflictus: un sostantivo ben scelto, che indica etimologicamente un urto reciproco, ma anche un incontro – quella che oggi chiameremmo un’interazione. 
In Italia, a dare notizia delle «maravigliose scoperte oerstediane sul conflitto fra l’azione elettrica e la magnetica» fu Pietro Configliachi, successore di Volta sulla cattedra di fisica dell’Università di Pavia, che così ne scrisse : «Sebbene quest’azione, che si manifesta sopra di un ago magnetico, (…) fosse quasi del tutto nuova e sorprendente, non di meno la facilità e la semplicità degli esperimenti, in virtù dei quali Oersted la rendette palese, e che dai coltivatori della fisica furono prestamente ripetuti e variati in diverse maniere, la contrassegnarono come vera scoperta; né dubbio alcuno si è mosso intorno ai nuovi fenomeni dal fisico danese descritti: anzi da essi presero i fisici nuova lena per cimentare la natura sulla causa degli effetti elettrici e magnetici, e sull’analogia dei medesimi». 
Le parole di Configliachi testimoniano la grande importanza che i contemporanei attribuirono subito alla scoperta di Ørsted. L’esperimento del fisico danese fu in effetti un vero trionfo del metodo scientifico: ingegnoso e semplice al tempo stesso, concepito in maniera tale da produrre risultati precisi ed inequivocabili, facilmente replicabile, fecondo di sviluppi. Fu anche una perfetta manifestazione del fatto che – come scriverà Ørsted in un saggio dal titolo Sullo spirito e lo studio della filosofia naturale universale – «ogni ricerca ben condotta su un oggetto limitato ci disvela parte delle leggi eterne della Totalità Infinita». 
La storia che stiamo raccontando ha un’appendice – anzi, un prologo – piuttosto interessante. In un articolo del 1830 Ørsted, riportando quanto scritto in un trattato del fisico bolognese Giovanni Aldini (che ricordiamo per aver concepito l’idea di ridare vita ai cadaveri mediante l’elettricità), menzionò un esperimento compiuto nel 1802 dall’italiano Gian Domenico Romagnosi, in cui era già stata osservata la deviazione di un ago magnetico per effetto di una corrente elettrica. Il libro di Aldini non riportava alcun dettaglio, ma Ørsted ammise che se quell’osservazione fosse stata resa pubblica «avrebbe accelerato la scoperta dell’elettromagnetismo». Romagnosi era di professione un giurista, non uno scienziato. Praticava la fisica per diletto e diede notizia del suo esperimento solo su fogli locali, la «Gazzetta di Trento» e la «Gazzetta di Rovereto». L’Articolo sul galvanismo che comparve su questi giornali non era molto chiaro riguardo alla procedura sperimentale, ma descriveva delle osservazioni apparentemente simili a quelle che avrebbe poi compiuto Ørsted. 
Romagnosi inviò un resoconto all’Accademia francese delle Scienze, ma non ottenne risposta: forse, ad appena due anni dall’invenzione della pila, quando buona parte delle ricerche verteva sull’elettricità animale, i tempi non erano ancora maturi per apprezzare quel tipo di esperimenti. 
In un momento in cui tanti insegnanti stanno garantendo, con grande impegno, la continuità educativa nelle scuole e nelle università, può essere confortante e di buon auspicio ricordare la scoperta di Ørsted, avvenuta esattamente duecento anni fa, durante una lezione. Certo, in quel caso si trattò di una lezione dal vivo, non a distanza come quelle che hanno luogo in questi giorni, ma chissà che la didattica in rete, combinata magari con le pratiche sempre più diffuse di citizen science (la scienza fatta dai non professionisti – un po’ come Romagnosi) non porti prima o poi a qualche risultato scientifico originale e rilevante. E chissà che a conseguirlo, stavolta, non sia uno studente.