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 2020  marzo 29 Domenica calendario

I 90 anni di Daniel Spoerri

«Dove sta andando l’arte, glielo posso spiegare. Se chiede a un tecnico quali saranno i prossimi sviluppi del suo settore, risponderà piuttosto precisamente: dobbiamo fare così e cosà e dovremo inventare o trovare o costruire questo e quello. Nell’arte non funziona così. Nell’arte all’improvviso compare qualcosa e quindi magari un artista viene superato, e si dice: ah, quello lì era importante, una volta».
Il disinteresse del mondo dell’arte non pare essere un problema di Daniel Spoerri. Le quotazioni delle sue opere sono ragguardevoli, in Europa e oltreoceano gli vengono dedicate frequentemente mostre, il 2020 è disseminato di iniziative a celebrazione dei suoi 90 anni, dagli Stati Uniti alla Francia, dall’Italia all’Austria e alla Germania.
Dopo una carriera come ballerino, è assurto a notorietà come esponente del Nouveau Réalisme negli anni 60, assieme ad artisti come César, Arman, Jean Tinguely, Yves Klein, Mimmo Rotella, Christo, François Dufrêne; è stato promotore delle edizioni di multipli MAT; è divenuto inconfondibile nel paesaggio artistico europeo con i suoi “quadri trappola” e i suoi collages assemblati con oggetti scovati al mercato delle pulci; è stato ideatore della “Eat Art” e di ristoranti fuori dagli schemi; ha insegnato a lungo in numerose accademie d’arte. Poi a 67 anni, nel 1997 Spoerri ha aperto a Seggiano, fra le colline del grossetano, il “Giardino”: 16 ettari disseminati di oltre 100 sculture sue e di amici artisti. Un’istituzione che, nonostante la sua personale, decisa impronta artistica, è diventata una fondazione capace di vita propria.
A 79 anni, nel 2009 Spoerri ha quindi acquistato un vecchio convento e un cinema in un paesino a un’ora di auto da Vienna e lì, a Hadersdorf am Kamp, ha dato il via a un proprio museo, la Ausstellungshaus, e a un ristorante. Sostenuto dal punto di vista gestionale dal governo della Bassa Austria, anche quel complesso è divenuto una fondazione, diretta da Barbara Räderscheidt: «Sono tutti piuttosto bravi a mandare avanti le due fondazioni. Lo fanno secondo le mie idee, mi capita raramente di dover dire: “ehi, un momento, non così”. A me di fatto non appartiene più niente, faccio solo il presidente», prosegue con palese soddisfazione -.
Una sorta di deus ex machina? «Di certo non deus. Se domani non ci sarò più, andrà avanti tutto senza scosse, ho fatto molta attenzione che potesse essere così, che la mia famiglia non potesse intervenire con cambiamenti». 
Oltre all’istituzione italiana e a quella austriaca, la costituzione nel 1996 di un apposito fondo alla Biblioteca Nazionale di Berna ha fatto sì che Daniel Spoerri vi conferisse negli anni materiali, opere, lettere, fotografie, libri, materiali audiovisivi: «Mi hanno dedicato un sacco di spazio, ho dato tutto a loro. Sa, non ho buttato via mai niente neanche della mia posta e ora là c’è qualcuno che sta catalogando e archiviando tutto quanto», dice con un tocco di quasi incredula ammirazione. 
A Vienna, dove ha preso casa nel 2007, continua a trovarsi bene. Nonostante rigurgiti di antisemitismo un po’ ovunque in Europa, non percepisce discriminazioni: «A dire il vero non l’ho mai avvertito nella mia vita: mi chiamo Spoerri e la gente mi considera svizzero, non ebreo rumeno. Non ne ho mai fatto mistero: fino all’età di 12 anni mi chiamavo Feinstein e poi, dopo l’uccisione di mio padre e la fuga in Svizzera, abbiamo assunto il cognome di mia madre. Devo dire che non mi chiede mai nessuno come mi sento a chiamarmi Spoerri invece che Feinstein. Sono Spoerri, punto».
L’identità, quella ebraica, la sente come componente culturale, piuttosto che religiosa: «Direi: un po’ com’era prima della Seconda guerra mondiale. Per me il discorso religioso è chiuso, ormai so che non è necessario che io creda in qualcosa, la religione è una scemenza. Ha degli aspetti positivi per chi ci crede, serve ai deboli per sentirsi più forti».
Nessuna vita dopo la morte, sottolinea: «Non ci credo neanche per un secondo. La sequenza è: finito, decomposto, dimenticato. E non c’è problema: ho l’impressione di essermi realizzato, non credo di aver perso chissà quali occasioni».
Chissà quale è stata la professione in cui si è realizzato di più, viene spontaneo chiedersi nella sua cucina viennese, dove ama sedersi al tavolo per parlare. Quella stanza del grande appartamento nei pressi del Mercato delle Pulci, non è cambiata. Lo è il soggiorno, fino a qualche tempo fa ingombro di cesti e cestelli ricolmi di oggetti disparati e oggi più simile a quello di una casa qualsiasi. Alle pareti, tante opere e la locandina del film che Anja Salomonowitz gli ha dedicato l’autunno scorso: «La professione che mi ha dato più felicità è la danza: io ballavo e sudavo e il pubblico di fronte a me applaudiva. Era perfetto, perché io danzavo e subito percepivo la reazione degli spettatori. Invece quando produco un’opera – dice indicando uno dei suoi collages - magari resta qui per anni e quando viene esposta o venduta, per me è un discorso già chiuso da tempo».
Come artista, ha avuto dei modelli? «Duchamp è stato molto importante per me. Lo conoscevo e credo mi apprezzasse. Mi piaceva quel che faceva e mi colpiva anche la sua personalità. Diventò un metro con cui misuravo ciò che creavo. Mi chiedevo: “Gli piacerebbe?” Poi ho avuto numerosi amici che hanno giocato un ruolo rilevante nella mia vita: Tinguely, Eva Aeppli, Bernhard Lüginbühl, Dieter Roth, tanto per nominarne alcuni. Eravamo un gruppo affiatato e per me il loro giudizio sulle mie opere era importante. Se dicevano soltanto: ah, è questa la tua nuova opera?, sapevo che non era niente di che. Ma ora tanti amici non ci sono più», butta lì pensoso.
Oggi lavora come sempre, ma senza frenesia: «Una volta, se non lavoravo alacremente durante la giornata, pensavo di averla sprecata. Oggi non sento più quella pressione a fare, non ho rimorsi se non faccio niente, non provo più alcuna disperazione al pensiero che potrei non avere più idee, perché a 90 anni non ho più bisogno di dimostrare alcunché», chiosa ridacchiando.