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 2020  marzo 29 Domenica calendario

Tutti a casa a studiare le sedie

Quante volte al giorno – e soprattutto in questi giorni in cui è necessario restare in casa – ci sediamo per riposare, studiare, leggere e mangiare? Ma quanta attenzione dedichiamo alla sedia cui affidiamo automaticamente il nostro corpo? Eppure, tra tutti mobili che ci circondano, la sedia è quella più vicina a noi, quella che meglio rispecchia la nostra anatomia: come noi ha gambe, braccia e uno schienale per sostenere il busto e la testa. 
Un oggetto antropomorfico cui corrisponde un concetto antropologico al punto che, nel luogo comune come nella fantasia degli scrittori, è spesso equiparata all’idea di potere e alla paura di perderlo, come nell’omonimo racconto di Samarago dove, parafrasando la tragicomica caduta del dittatore Salazar, la sedia è descritta come dotata di una volontà autonoma, indifferente alle conseguenze della sua ribellione. La sua forma, la sua struttura conferiscono un’identità a chi ci sta seduto, testimoniano uno status nella gerarchia sociale, definiscono il ruolo di chi è autorizzato a usarla: il trono del monarca, la sedia gestatoria del papa, la cattedra del vescovo, lo scranno del giudice, lo sgabello dello studente o dello scrittore, il sedile rustico del povero e l’altezzosa poltrona del ricco.
La differenza di sedute implica una differenza di vedute, come ci ha insegnato con acida ironia la scrittrice e giornalista siriana Dima Wannous nel suo esilarante romanzo Kursi (sedia, appunto): «la maggior parte di quelli che ottengono incarichi importanti diventano più grassi, a causa dello stare a lungo seduti su una sedia. Ogni professore universitario possiede una sedia all’università, che dà diritto a uno dei suoi figli di sedervisi sopra, perfino se i voti del diploma sono mediocri. Il capofamiglia in casa possiede la sedia più grande, posizionata a capotavola». 
Alcuni popoli asiatici e africani siedono a terra a gambe incrociate, accovacciati o inginocchiati. Noi, invece, non possiamo vivere senza le sedie che, per questo, compongono l’iconografia più pertinente della civilizzazione occidentale. Con un repertorio di 1.740 modelli che copre l’arco di circa 240 anni nel format monumentale di più di mille pagine, il Vitra Design Museum (che custodisce a Weil am Rhein una delle più importanti collezioni di mobili), ha appena pubblicato l’Atlas of Furniture Design, il catalogo più accurato di uno dei più significativi emblemi dell’idea stessa di modernità.
Una Bibbia (o meglio il Kamasutra) della sedia moderna, dove sono descritte con perizia storica tutte le sue infinite varietà di posizioni: girevole, a rotelle, rigida e a sdraio, nobile e plebea, anonima e firmata, di legno e di metallo, di plastica e di cartone, di vetro e di stoffa, eccetera. Con la rivoluzione industriale alla fine del Settecento la sedia infatti entrò nel mirino della produzione di massa. Con il miraggio della sedia per tutti, cominciarono a convergere in questo semplice oggetto d’uso molte delle invenzioni che hanno rivoluzionato il mondo: partendo dalla tecnologia dei treni e delle sospensioni delle carrozze, l’americano Thomas Warren nel 1849 derivò il brevetto della Sedia Centripeta, che poteva cioè ruotare su un perno centrale, precorrendo la strada di tutte le moderne sedie d’ufficio (che, per ora, ci stanno aspettando). La pubblicità ne suggeriva l’uso nelle biblioteche o negli studi privati perché consentiva di muoversi per prendere libri e documenti rimanendo sempre comodamente seduti. Nella Germania degli anni Venti fu lanciato con successo uno sgabello portatile e pieghevole in ferro curvato, venduto in una scatola con lo slogan: «per il conforto di chiunque abbia bisogno ogni tanto di fermarsi e sedersi su qualcosa di comodo». 
L’Ottocento – bistrattato per la sua nomea di secolo eclettico – fu il simbolo della meccanizzazione che prendeva il comando della società. Oggetti sino ad allora statici cominciarono ad animarsi, con il sostegno della scienza medica: partendo dalla considerazione che sedersi per terra richiedesse uno sforzo eccessivo per la colonna vertebrale, numerosi studi di ortopedia sostenevano la necessità di un appoggio per la schiena per ottenere il rilassamento del corpo. Sempre in America l’esempio di Warren stimolò le sperimentazioni di George Wilson con la sua sedia regolabile in trenta diverse posizioni che consentivano spostamenti del sedile, della seduta e del poggia piedi. Sedia che divenne il prototipo delle innumerevoli declinazioni successive che vanno dalla Siesta Medizinal della ditta Thonet, disegnata nel 1938 da Hans Luckhardt sulla base di principi ergonomici, alla L77 dell’italiano Osvaldo Borsani (1955), che costituirà per decenni la progenitrice di tutte le confortevoli lounge chair contemporanee. 
Dalla Thonet n 14 - l’equivalente dello Chanel N° 5 - alle sedie etniche dei fratelli Campana sino agli esperimenti di manifattura 3D di Konstantin Grcic, l’industriale e il fatto a mano, il funzionale e l’artistico, l’anonimo inventore e il designer di fama hanno dato vita a un affascinante catalogo di soluzioni che sorprende per ingegnosità e dedizione, per curiosità di sperimentare soluzioni a partire dai più diversi materiali, ma anche per la voglia di infrangere tabù e sfatare il mito dell’industria, come nelle sedie Allen Jones o di Gaetano Pesce con la dissacrante proposta di un corpo nudo femminile.
«La sedia – asserì con una certa pomposità Mies van der Rohe – è un oggetto assai difficile. Lo sa chiunque abbia provato a disegnarne una. Le possibilità sono infinite, ma anche i problemi. Una sedia deve essere leggera, resistente, confortevole. È quasi più facile disegnare un grattacielo che una sedia». E proprio lui ne diede una convincente dimostrazione con la celebre sedia a sbalzo che riunificava in un unico tubo di metallo curvato bracciolo, gambe e schienale. Nasceva così nel 1927 la madre di tutte le sedie moderne,il Rolex o la Rolls Royce delle sede a braccioli: ma anche il trionfo delle avanguardie che spazzavano via vecchi modi di abitare realizzando il sogno dell’uomo nuovo del XX secolo di galleggiare nell’aria. Un’aspirazione non del tutto nuova, quella della leggerezza, visto che già nel 1807 un modesto artigiano ligure, Giuseppe Descalzi, aveva rivisitato un tradizionale tipo di sedia povera in legno e paglia, dando vita alla Chiavarina che fece solennemente dichiarare al mago del marmo Antonio Canova quanto segue: «il problema di combinare la più grande leggerezza con la maggiore forza è stato risolto». Più di un secolo la Chiavarina dopo suggestionò anche Gio Ponti, ispirandogli la sua famosa Superleggera.
Ma è stato il XX secolo la golden age della sedia con l’apoteosi della leggerezza. E se all’inizio fu l’America ad adottare la sedia come strumento di una diplomazia culturale che imponeva all’Europa l’american way of sitting, l’Europa (e l’Italia) si ripresero presto la scena, con i movimenti radicals che insegnarono la bellezza di una certa anarchica libertà: la sedia poteva essere un guantone da box, una sfera morbida da modellare con il corpo o un trono sentimentale come la poltrona Proust di Mendini. 
Sempre le stesse ma sempre diverse, queste sentinelle mute del tempo che passa sono i ritratti di chi le ha disegnate, ma anche di chi le ha scelte e usate, al punto di poter dire, parafrasando Savarin: «dimmi dove siedi e ti dirò chi sei».