il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2020
I diari delle precedenti epidemie
Più che un rullino dei ricordi sembra un’istantanea. La foto dell’Italia a cavallo tra due secoli, l’Ottocento e il Novecento, e due grandi epidemie, il colera e la spagnola, ha la stessa clamorosa sintesi scenica. Due secoli indietro eppure le paure, lo stupore e quell’angoscia di un mondo che si ferma e muore, di un virus che giunge misterioso e letale, assumono il medesimo ritratto delle cronache contemporanee. La scienza si interroga, la gente si tappa in casa, la medicina, se arriva, giunge quando è già tardi.
Perciò questi ricordi delle quarantene di altri tempi, da luoghi a volte miserabili, sono così preziosi e strazianti. Non c’è modernità, non c’è sviluppo, non c’è tecnologia che tenga davanti al mistero della vita.
Arriva la morte, senza un perché.
Luigi Tramontano (1836-1837)
Libro antico e diario di famiglia quello che Luigi Tramontano redige. Tradizione radicata tra i ceti benestanti dell’epoca per annotare nascite, morti, matrimoni, compravendite e acquisizioni di beni del casato.
“Nei mesi di Ottobre, e Novembre dello scorso anno 1836 il colera attaccò Napoli, ove fece strage, come pure Castellammare di Italia, le due Torri, ed altri luoghi limitrofi, e per ogni dove produsse spavento. (…) Nel Maggio di questo anno 1837 si sviluppò con furore e nel giugno attaccò questa Città di Pagani, ed in prima la nostra strada di San Michele. Tutto restò paralizzato. I volti erano sparuti, ed ogni cosa aportava terrore. (…) Quindi alle ore 5 di detta sera di Domenica 9 Luglio si sciolse il ventre a mia moglie, e nei seguenti giorni ebbe forze di vomito, o sia fu attaccata dal colera”. (6 agosto 1837)
Stefano Pucci (1837-1854)
Memoria autobiografica di un avvocato, figlio di un Commissario di Guerra nelle Calabrie e discendente della nobile famiglia toscana de’ Pucci.
“Nella giornata di S. Pietro e Paolo morirono 1800 persone. L’annunzio del flagello mi scosse oltre misura l’animo. Credetti esser venuta l’ora mia, e decisi di astenermi dal mangiare oltre il più stretto bisogno, e di bevere acqua solamente. Eravamo in Luglio Agosto, e facevo abusi di bagno, cibandomi scarsamente. Un tal sistema dietetico mi cagionò una fiera malattia intestinale e in dissenteria sanguigna e divenni un cadavere ambulante. I medici mi prescrissero la cura di latte d’asina, ed a stento, dopo alquanti mesi, mi riebbi come Dio volle”.
Francesco Tedeschi (1837)
Un impiegato dell’Annona nello Stato Pontificio dal 1779 scrive un diario in cui annota ogni anno i principali avvenimenti nella città di Roma sotto il governo del Papa, oltre alla sua situazione lavorativa e familiare.
“Con il massimo dispiacere si descrive esattamente quanto è stato pubblicato officialmente dal giornale di Roma relativamente al Colera Assiatico che cominciò a manifestarsi in Roma fin dal mese di Luglio del corrente anno 1837. Fu nel dì 8 Luglio, che si segnalò in questa Capitale il p.mo caso sospetto in persona di un cocchiere (…) nel dì 28 vennero a svilupparsi tre casi ed è da quel giorno, che le opinioni de’ Professori discordanti sulla natura de diversi mali che si sono qui manifestati hanno fatto oscillare il pubblico fra la speranza, e il timore fino alla metà del corrente mese di agosto, dopo di che si è finalmente riconosciuto, che mentre specialmente nell’esterno della città prevalevano le febbri algide perniciose, e di queste si moltiplicavano così gli infermi nell’Archiospedale di Santo Spirito, nell’interno poi i casi che vi si andavano segnalando di giorno in giorno non potevano caratterizzarsi più che per colerici. La somma di tutti gli attaccati dalle due anzidette infermità è ascesa, inclusivamente fino al giorno 20 di Agosto al n° di 1277 de quali 566 vi soccomberono, 151 ne guarirono, e 560 rimangono tuttora in cura. (…) il giorno 15 d.o nelle tre Basiliche di S. Pietro, S. Giovanni, S.ta Maria Maggiore, ed in tutte le Parrocchie fu cantato un solenne Te Deum, specialmente in S. M.a Maggiore ove vi andette il Papa”. (2 giugno 1837)
Bruno Palamenghi (1863-1887)
Nipote di Francesco Crispi, intraprende la carriera militare dopo aver frequentato l’Accademia di Modena. Presta soccorso alle popolazioni dopo le epidemie di colera a Napoli, e in Sicilia dopo il terremoto di Messina.
“Nacqui il 29 in Girgenti. È una cittadina di circa 30 mila abitanti, abbandonata da Dio e dagli uomini (…) Nel 1866-67 si ebbe il colera, falciando e facendo strage senza alcuna misericordia, in quasi tutte le Provincie della Sicilia. (…) Il 30 Giugno al ritorno dall’istruzione comincia qualche caso fra la truppa – e ne succede gran scompiglio ed impressione nelle Caserme – e nell’Ufficialità. (…) Morire in guerra, si muore da eroe – si muore per la Patria – si fa una morte gloriosa – ma morire di colera, è ben triste – ben doloroso!”.
Tommaso Bordonaro (1918)
Il padre di Tommaso torna dall’America e subito parte per il fronte. Il bambino, ancora in tenera età, non può frequentare la scuola perché deve lavorare per aiutare la famiglia: con i suoi risparmi riesce a comprare tre capre che poi rivenderà per consentire al padre, sopravvissuto alla grande guerra e alla “spagnola”, di acquistare un asino. La Sicilia del primo novecento è descritta nella sua povertà, nelle sue feste e nelle sue tradizioni con semplicità ed efficacia.
“Così dopo tre anni è finita la guerra mondiale e io possedevo 3 capri di mia proprietà a quasi 10 anni di età, mi sentivo uomo fiero che possedevo 3 capri. Finita la guerra mio padre ritornava grazie a Dio vivo e sano, ma nella nostra casa regnava la miseria, più guaio ancora finita la guerra, vi è stata una malattia infettiva chiamata la spagnola, anche mio padre e quasi tutto il popolo era infettato, e l’agente moriva accatastrofi nel nostro piccolo paese parte 5 parte 6 al giorno. Al giorno morivano tante volte due o tre in una famiglia (…) Era l’inverno 1918 giorno dell’Immacolata. 8 Dicembre è nato il quarto mio fratello, mio padre nell’etto moribondo quel piccolo fratellino nato, mia zia Paola sorella di mia mamma lo à messo sotto il sciallo e lo andato a Battezzare e le à messo il nome Pietro Domenico, perché suo marito gli era morto in guerra e si chiamava Domenico”.
Giuseppina Mincio (1918-1920)
Una casalinga siciliana segue il marito in Libia. I suoi ricordi in un diario.
“L’epidemia della spagnola. Fu anch’essa un’immane tragedia. Si trattava di una influenza maligna che colpiva grandi e piccini, ma infieriva con maggiore violenza sui giovani, che mieteva senza pietà. Intere famiglie furono decimate. Le campane suonavano a morto da mane a sera. Questo, aggiunto alle ferali notizie che giungevano dal fronte, aveva creato un’atmosfera lugubre. A casa mia la prendemmo tutti. Papa, con la febbre altissima, era costretto a stare in piedi, per curarci. Allo scoppiare dell’epidemia, erano stati distribuiti alle famiglie dei medicinali e una grande quantità di limoni. Ognuno si curava da sé. Nessuno usciva di casa, neanche i medici, che d’altronde non sarebbero stati in numero sufficiente al fabbisogno. Ricordo, a casa mia, lenzuola bagnate di disinfettante appese ai balconi al posto delle tende. Erano misure precauzionali; ma tutto si dimostrava inutile. Morivano centinaia di persone al giorno. Il Comune aveva noleggiato carri trainati da buoi, con personale che trasportava rustiche casse da morto, prelevava i cadaveri dalle case e si occupava del seppellimento. Pareva di essere tornati al tempo della peste di Milano. Di tanto in tanto, urla raccapriccianti, provenienti dalla strada o dalle case vicine, annunziavano qualche altro lutto”.
Renato Rossi (1918)
Ventenne parte per la Prima guerra mondiale e, da Venezia, dove svolge lavori di ufficio, scrive al padre e alla sorella Bianca in Umbria. Si ammala di spagnola e il cappellano racconta alla famiglia la sua morte, avvenuta nell’ospedale militare di Postumia.
“Babbo carissimo come vedi dall’indirizzo mi trovo all’ospedale per un po’ di tosse che speriamo con un po’ di aria sparisca presto. Non impressionarti mi raccomando perché non ne è il caso. Fatevi coraggio come me lo faccio io e speriamo che Iddio continui ad assistermi come nel passato. Baci a tutti e a te un abbraccio dal tuo affezionato Renato” (3-12-18)
All’Ufficio Notizie di Castiglione del Lago
“Il Sottotenente Rossi fu ricoverato in questo Ospedale da campo nel pomeriggio del giorno 30 novembre per influenza (febbre spagnola) con broncopolmonite. La 3 dicembre si aggravò. (…) incominciò a chiamare la mamma e diceva “mamma, mamma presto vengo a trovarti”. Queste testuali parole egli ripeteva di frequente nei giorni tre e quattro. Non fece, si può dire, agonia, come suole avvenire in questa malattia e fu soffocato dal sangue che gli finiva sulla bocca. Fu da me assistito fino all’ultimo respiro e morì raccomandandosi al Signore e a Maria Vergine. Spirò nelle ore 18 del 4 Dicembre 1918”. Rev.mo D. Giovanni Dal Santo Cappellano Militare Ospedale da campo 0155
Gaetano Dionigi (1918-1919)
I ricordi del tempo che fu: la banda di amici, la febbre spagnola, il fascismo che non fa più cantare “Bandiera rossa”, la strada con le prostitute dietro i portoni aperti.
“La guerra era finita. Noi eravamo a letto con la ‘spagnola’. Gli unici che ne furono immuni furono il papà, e i fratelli maggiori Pippo e Bruno; mia sorella Anna, io e la mamma eravamo a letto con questa ‘spagnola’ insieme al fratellino. Il papà era diventato infermiere; beveva grappa perché dicevano che disinfettava tutto, e in più teneva continuamente una cicca di sigaro in bocca.
Questa malattia si prolungava e non finiva mai. Nelle strade imbandierate per la fine della guerra, si sentivano continuamente canti e musica. Noi eravamo a letto con la febbre che ci divorava. Un dottore molto anziano ci veniva a trovare un giorno sì e uno no, ordinava degli sciroppi, ci auscultava tutti e diceva: “Finché non vengono delle complicazioni polmonari c’è speranza”.