Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  marzo 29 Domenica calendario

Biografia di Sydney Pollack

«Più che fare film, mi piace averli fatti». Così mi disse Sydney Pollack di fronte a un piatto di pasta al tonno, adorava la cucina italiana, e poi concluse con un sorriso, «riuscire a concludere un progetto cinematografico è sempre un miracolo». Conosceva il proprio mestiere come pochi, ma parlava raramente di cinema, la vita gli sembrava molto più appassionante. Era venuto a New York pilotando il suo aereo privato, e si dilungò a raccontare il privilegio di vedere il mondo dall’alto: «Una meraviglia unica e impagabile, che ti ricorda quanto tempo sprechiamo a fare cose poco interessanti».
Non è un caso se una delle sequenze più celebri del suo cinema sia quella in cui Robert Redford porta con sé in volo Meryl Streep sulla savana nella Mia Africa. Era un uomo alto e robusto, Sydney, dall’aspetto giovanile e il sorriso di chi risponde con l’ironia al dolore dell’esistenza. Quello che mi disse sul cinema non era solo una battuta, ma la negazione di un approccio da cinephile: a differenza della stragrande maggioranza dei colleghi non aveva alcun attaccamento spasmodico al set e ostentava distacco persino nei confronti della costruzione artistica. 
Per Sydney contavano i risultati, e sapeva che il modo migliore per raggiungere la bellezza non era ritenersi un artista, ma lavorare con dedizione, umiltà e professionalità. I suoi film hanno ottenuto 48 candidature agli Oscar vincendone 11, ed è il regista che è riuscito a ricoprire più brillantemente un ruolo di sintesi tra lo studio system e la rivoluzione degli anni Settanta, con la quale si affermarono grandi cineasti dalla personalità forte e indipendente. Era un regista eclettico, capace di spaziare con eguale qualità dalla commedia al western, dal thriller alla storia d’amore. Riteneva che «nulla è meno facile dell’arte», e attribuiva un’importanza fondamentale a sceneggiatura e montaggio, che paragonava alla scultura.
È riuscito ad eccellere in ogni cosa in cui si è cimentato: era un produttore potente e illuminato, un attore intenso e spiritoso, e, ovviamente un ottimo regista. Era imbattibile soprattutto nella direzione degli attori, come testimonia la lunga serie di grandi star che hanno fatto a gara per lavorare per lui: Barbara Streisand, Tom Cruise, Meryl Streep, Paul Newman, Nicole Kidman, Robert Mitchum, Jane Fonda, Al Pacino, Jessica Lange, Faye Dunaway e Robert Redford, che diventò un suo alter ego. A rivederli oggi sono pochi i suoi film che risentono del fatto di essere stati fatti su commissione, e sono molto più numerosi quelli che sono diventati dei classici, come l’esilarante Tootsie, lo struggente Non si uccidono così anche i cavalli? o Corvo Rosso non avrai il mio scalpo, che, con quaranta anni di anticipo, racconta con maggior passione e semplicità una storia analoga a quella di The Revenant.
Ha avuto il coraggio di realizzare un potente atto d’accusa contro le storture del giornalismo investigativo con Diritto di cronaca, e ha dato qualità e spessore a film di genere come I tre giorni del Condor e Yakuza: «Amo i thriller, perché è necessario essere disciplinati», spiegava, ma forse i film con cui è maggiormente identificato sono La mia Africa e Come eravamo, con i quali ha saputo raccontare delle storie d’amore che hanno conquistato il mondo. Per troppo tempo la critica lo ha considerato poco più che un mestierante, accusandolo di non avere un proprio stile, senza rendersi conto che la sua scelta registica era proprio quella di mettersi al servizio della storia per esaltare il racconto e gli attori. 
In questo apparteneva alla migliore tradizione dello studio system, e ricordava altri grandi registi apparentemente invisibili quali William Wyler e George Stevens. Ma nelle sue corde aveva la sensibilità e l’intelligenza per interpretare la modernità, e sapeva bene che il cinema può essere una grande arte, e quando gli venne attribuito il premio alla carriera al Festival di Locarno dichiarò «Hollywood è un mondo assurdo, ridicolo e viziato, dove però accade di veder nascere ogni tanto dei film bellissimi». Era il 2002 e non sapeva di avere solo pochi anni davanti a sé: stava per compiere settanta anni e lavorava come sempre a molti progetti contemporaneamente, con la solita abnegazione ed ironia. 
In superficie mostrava lo spirito di sempre, ma chi lo conosceva bene vedeva negli occhi un velo di dolore: il figlio Steve era morto pilotando un aereo privato, e lui si sentiva in colpa per avergli trasmesso quella passione. Pochi sanno che ha lavorato sul set del Gattopardo, come assistente personale di Burt Lancaster: parlava con grande riconoscenza di Luchino Visconti, e ricordava sorridendo il totale spaesamento che provò a trovarsi su quel set. «Sono cresciuto in Indiana», mi raccontò una volta «e puoi immaginare come mi sentissi a lavorare in un film che parlava di aristocratici siciliani diretto da un nobile milanese. Non sapevo nulla del risorgimento italiano, e devo a quella esperienza se i miei orizzonti si sono aperti: grazie a quel film meraviglioso ho capito che era possibile un altro tipo di cinema».
Sydney era nato a Lafayette in una famiglia di ebrei russi, e scherzava sulle proprie origini: «Vengo dall’Indiana, se capisco io una cosa, la possono capire tutti». Il padre era un pugile che non ebbe mai successo e dopo infinite sconfitte lavorò in una farmacia. La madre morì a 37 anni dopo aver avuto seri problemi di alcool. La coppia si era separata quando lui era ancora bambino e per mantenersi Sydney fece i lavori più umili, quali l’autista di camion. Dopo aver fatto il soldato cominciò a suonare il jazz, diventando un ottimo pianista, e poi a recitare. Fu John Frankenheimer a dargli il primo lavoro come «dialogue coach» nel Giardino della Violenza. Il protagonista del film era Burt Lancaster, che lo incoraggiò a debuttare nella regia: si trasferì a Hollywood, dove fece moltissima gavetta, specie in televisione. Ma la sua vera passione era la recitazione, come testimoniano ruoli diversissimi interpretati in seguito, tra i quali il personaggio ambiguo di Eyes Wide Shut e l’agente in Tootsie. Nel primo venne chiamato a rimpiazzare Harvey Keitel, del quale Kubrick non era convinto dopo molte settimane di lavorazione. Nel secondo film era convinto sin dall’inizio di interpretare l’agente, ma scettico riguardo alla scelta di scritturare Dustin Hoffman nel ruolo di un attore che riesce ad avere successo solo fingendosi donna. Le esitazioni caddero quando Hoffman gli mandò un fascio di rose rosse a firma di Tootsie con scritto: «Per favore diventa il mio agente». Non meno significativo il ruolo dell’avvocato adultero in Mariti e Mogli di Woody Allen, che considerava una delle sue migliori interpretazioni. Per tutta la vita è stato leale negli affetti. Era amico di Frank Gehry sin da quando l’architetto era alle prime armi, e questo approccio di umiltà intellettuale è evidente nel bellissimo documentario Sketches on Frank Gehry: «Non posso certo improvvisarmi esperto di architettura. Quelli che mostro sono al più dei frammenti, che spero siano di stimolo per capire la grandezza di Frank».
Era un convinto liberal, e ripeteva che «è terribile che la politica sia diventata spettacolo». Fu per motivi politici che rifiutò di dirigere Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo, ma quando vide il film rimase ammirato per il risultato. Sapeva farsi valere utilizzando sempre il garbo, persino come produttore di prim’ordine, ruolo grazie al quale ha ottenuto altre cinque candidature all’Oscar. Parlava poco dei suoi film, ma una volta mi spiegò che aveva deciso di dirigere Tootsie perché si era innamorato dell’idea di «un uomo che diventa una persona migliore dopo essere stato una donna»