La Stampa, 29 marzo 2020
Intervista a Sandro Veronesi
Sandro Veronesi sta trascorrendo la quarantena nella sua casa di Roma con la moglie e i due figli di 7 e 10 anni e mezzo. I suoi altri figli sono «uno, quello di 20 anni, isolato a Prato con la fidanzata. Un altro, di 28, a Londra, dove cerca di uscire il meno possibile in attesa di quello che sta per arrivare. E un altro, di 26, incastrato in Australia. Stiamo cercando di farlo tornare in Italia».
Lei come vive?
«Non da scrittore. Non leggo e non scrivo, non ho tempo. Senza aiuti in casa hai sempre da fare: bisogna stare appresso ai bambini, farli studiare, fare la spesa».
Pensa che questo periodo le servirà per scrivere?
«Ho letto un tweet di Stephen King. Dice che gli scrittori che ambientano le loro storie nel presente devono fermarsi a riflettere su cosa sia il presente. Io tengo un diario e scrivo di notte, quando sono stanco morto».
Cosa pensa di tutto questo?
«Stanotte nel mio diario ho riflettuto su una cosa: in realtà siamo noi il virus. Il corona è un anticorpo. Se uno si mette dalla parte della natura in senso leopardiano, l’organismo pericoloso è l’uomo: si comporta come un virus cercando di piegare tutti ai propri gusti. Io mi domando: "A cosa serve l’uomo sul pianeta?". Abbiamo visto che la natura prima o poi elimina gli esseri che non le servono. Questa secondo me non è una punizione divina, è una reazione di tipo naturalistico-scientifico. Sono stati scritti tanti libri sulla peste: Manzoni, Céline, Giono, Camus».
Serve, ora, la letteratura?
«Se fosse un bene condiviso servirebbe perché avremmo la mente preparata. Molte cose sono state previste. Molte distopie sono simili alla realtà odierna e potrebbero insegnarci a non commettere certi errori di comunicazione. Ma è tutto inutile perché la letteratura non è un bene condiviso ma di élite. Quelli che danno i bollettini con i numeri dei morti e dei malati non hanno letto Saramago o Camus. Comunicherebbero diversamente altrimenti. La gente del resto non sta in casa. Io sto in casa perché appartengo all’élite per la quale la letteratura serve».
Pensa che stiano leggendo il suo romanzo Il colibrì che concorre al Premio Strega?
«Prima che le librerie chiudessero le vendite erano andate bene. Forse la gente, chiusa in casa, lo leggerà».
Le fa impressione che siano chiuse librerie, scuole e università?
«Mi fa impressione che siano aperti i servizi pubblici. Mi fa impressione che girino gli autobus. L’ultima cosa sociale che ho fatto è stata passare un’ora alla Feltrinelli prima che Roma chiudesse».
Che cosa ha fatto?
«Ho comprato le lettere di Beckett e una raccolta di saggi di Saul Bellow, Troppe cose a cui pensare. Nella quarta di copertina c’è scritta una cosa che penso come scrittore ma che non avrei saputo scrivere così bene: "L’unica cosa che conta davvero è questo tenerci, questo credere, questo amare. Se non ci importa veramente di quello che scriviamo o facciamo, che muoiano pure tutti i libri, vecchi e nuovi, i romanzieri e i governi. Se invece ci importa, se crediamo nell’esistenza degli altri, allora quel che scriviamo continuerà a essere necessario"».
Un vero scrittore ha il dovere di far sentire la sua voce?
«Certo ma prima deve averla. Dobbiamo ripensare, come dice King, a cosa sarà il mondo dopo. Non è detto che la voce che avevo prima sarà lo stessa. Ci sono scrittori come Houellebecq che usano la letteratura per anticipare mondi solo apparentemente immaginari».
Cosa le fa paura di quanto che sta succedendo?
«I morti in Lombardia. Un numero così abnorme a Bergamo, Brescia, Cremona. Mi dice che lì ci sfugge qualcosa. Tutte quelle bare, e la gente che muore senza il conforto di un prete. Mi impressiona. Giobbe scrive: "Quando un uomo pensa, Dio ride". Condivido».
Lei ha paura?
«Sono abituato a farmi coraggio proprio quando ho paura».
È credente?
«No, ma ho fede in chi lo è. Le persone con fede e che hanno fiducia sbaglieranno meno. Tanto tempo fa ho scritto un monologo teatrale, Non dirlo, sulle scritture evangeliche. Non mi sono convertito ma ho capito meglio cosa significhi la fede per quelli che ce l’hanno e mi fido di più di loro. Certo, non parlo degli integralisti ma di chi ha un dialogo con Dio».
Sta cambiando qualcosa dentro di lei in questi giorni?
«Sì, non avevo mai tenuto un diario prima. Ho fatto una lista di ciò che mi piace e di ciò che non mi piace. Mi piace viaggiare, mangiare pesce e carne, andare in macchina. Ma, essendo 7 miliardi sulla Terra, tutte queste cose sono tossiche. Le economie crolleranno ma sarà un’occasione per rivedere tutto. Forse mi diranno di non andare più in aereo e smetterò».
Qual è il suo stato d’animo?
«Penso al protagonista del mio romanzo Il colibrì, Marco Carrera: è un uomo piccolo, ma di fronte a cose grandi riesce a farsi grande. Se fossi sicuro di essere in grado di affrontare quello che verrà dopo facendomi abbastanza grande sarei abbastanza tranquillo. Il mio timore è che non sono certo che io e tanti altri saremo in grado di affrontare questo dopo».