la Repubblica, 29 marzo 2020
Il prezzo del grano
I governi non hanno controllo sullo scoppio delle pandemie, ma le loro decisioni contribuiscono a determinarne il costo. Una scelta cruciale riguarda se continuare a permettere alle proprie imprese di esportare, oppure impedirglielo per accumulare scorte. Per ora, i Paesi hanno per lo più deciso di lasciare aperte le frontiere alle merci, ma ci sono segnali di un’avanzata del protezionismo. Si è iniziato dal materiale sanitario, ma i blocchi cominciano a coinvolgere anche derrate alimentari. Il rischio è quello di una riduzione dell’offerta globale, che porti a episodi di scarsità e a un rialzo dei prezzi. Nelle ultime settimane, diversi Paesi produttori di cibo hanno ridotto le loro vendite all’estero per garantirsi l’autosufficienza. Secondo un articolo di Bloomberg, il Kazakistan ha bloccato le esportazioni di farina, carote, patate e zucchero. Il Vietnam ha sospeso la stesura di nuovi contratti per le vendite di riso. La Russia, il maggiore produttore di grano del mondo, sta decidendo se limitarne l’offerta ai Paesi stranieri. Si tratta, per ora, di episodi isolati, a cui non è detto seguiranno altri. È probabile, inoltre, che altri Stati vadano a colmare il gap di produzione che potrebbe eventualmente crearsi. L’Organizzazione Internazionale dei Cereali ha stimato che le scorte di grano per la prossima stagione saliranno di circa 3% fino a 283 milioni di tonnellate. Eppure, il mercato comincia a dare segnali di nervosismo: dopo un forte calo, i contratti future sul frumento scambiati alla borsa di Chicago sono saliti di oltre il 5% questa settimana, e dell’8% in questo mese. Il nazionalismo alimentare rischia di aggiungersi ad altri fenomeni protezionistici, come quello sul materiale sanitario. L’Italia si era giustamente lamentata della decisione iniziale (poi revocata) da parte di Paesi come Francia e Germania di sospendere le esportazioni di mascherine e altro equipaggiamento protettivo. Oggi, però, siamo noi a bloccare le vendite di materiale per l’ossigenazione a stati come la Grecia e l’Irlanda. Il governo cerca comprensibilmente di curare al meglio i malati italiani, ma è chiaro che se ognuno dovesse chiudersi, ci troveremmo presto tutti in emergenza. I pericoli del nazionalismo alimentare riguardano soprattutto i Paesi a basso reddito e quelli importatori. Tuttavia, uno studio della Banca Mondiale del 2014 ha mostrato come la conseguente crescita dei prezzi finisca per colpire anche i Paesi esportatori che decidono di fermare le vendite all’estero, proprio per le reazioni protezionistiche a catena che avvengono altrove. Al momento, il rischio di aumenti generalizzati dei prezzi è contenuto: la domanda globale per beni e servizi è crollata, a causa delle restrizioni draconiane sulla libertà di movimento delle persone che oggi coinvolgono una fetta importante della popolazione mondiale. Il rallentamento dell’economia e l’aumento della disoccupazione avranno un ulteriore effetto deflattivo. Tuttavia, una serie di forze spingono in una direzione opposta: si pensi al rischio che molti lavoratori non possano o vogliano tornare in fabbrica e nei magazzini, a causa dell’emergenza sanitaria. Oppure, per l’appunto, a una deriva protezionistica, che riduca l’offerta di beni e servizi e dunque ne faccia aumentare i prezzi. I governi non possono permettersi spinte inflazionistiche: diminuirebbe il potere di acquisto delle persone, con un impatto inevitabile sulla pace sociale. E si ridurrebbe lo spazio di azione per le banche centrali, che possono sostenere la domanda solo finché i prezzi restano sotto controllo. Dopo esserci trovati con poche difese davanti al virus, il rischio è trovarci disarmati anche di fronte alla crisi economica L’autore è editorialista di Bloomberg Opinion