Tuttolibri, 28 marzo 2020
I suicidi dei tedeschi dopo il crollo del nazismo
Nel gennaio 1945 l’esito della Seconda guerra mondiale era ormai scontato; stretta nella morsa tra l’Armata Rossa che avanzava da est e le truppe angloamericane che premevano da ovest, per la Germania hitleriana non c’era più scampo. E quando la sconfitta militare apparve inevitabile, per gli uomini e le donne che avevano ciecamente creduto ai deliri del Führer arrivò il tempo della resa dei conti. Fu un momento tragico, con aspetti che oggi sembrano parossistici, quasi disumani. È il caso dei suicidi di massa che allora coinvolsero migliaia di tedeschi e che oggi ci vengono raccontati nell’ultimo libro di Florian Huber. Si sapeva dei suicidi eccellenti, quelli di Hitler e Eva Braun, di Goebbels e della sua intera famiglia, così come era nota l’ondata di suicidi che nei giorni della disfatta avevano falcidiato gli alti gradi della Wermacht (53 generali su 554), della marina (11 ammiragli su 53), della Luftwaffe (14 generali su 98) e delle alte gerarchie naziste (su 43 gauleiter, i capi delle sezioni regionali del partito, una decina si tolse la vita, alcuni con le famiglie). Mai prima d’ora, però, il carattere diffuso e generalizzato di questa pratica di autolesionismo era stato analizzato con tanta dovizia di particolari e attraverso un esame rigoroso di tutte le fonti disponibili. Ne risultano cifre al limite del credibile; si calcola che circa 10 mila donne si sarebbero tolte la vita dopo essere state stuprate nei territori tedeschi invasi dai russi; una statistica ufficiale indica che, nella sola Berlino, nell’ultimo anno di guerra, il numero dei suicidi era quintuplicato rispetto all’anno precedente, con un picco di 3.881 nell’aprile del 1945, quello dell’arrivo dell’Armata Rossa. Il caso più documentato è quello di Demmin, un villaggio della Pomerania anteriore dove i russi arrivarono il 30 aprile; fino al 3 maggio centinaia di uomini, donne e bambini, coppie sposate, giovani e anziani pensionati si uccisero annegandosi nei fiumi, sparandosi con fucili e pistole, impiccandosi, avvelenandosi. Una fortuita traccia documentale (il registro di ingresso delle merci nel cimitero locale) certifica circa 600 casi, ma si stima che la cifra reale oscilli tra le 700 e le 1000 unità.
Si tratta di un fenomeno imponente del quale Huber cerca di fornire alcune spiegazioni. Ad est, nelle regioni investite per prime dall’urto sovietico, la paura dei «rossi» fu certamente la motivazione prevalente. Le notizie sugli stupri, i saccheggi, le violenze avevano determinato un clima di terrore, alimentato da alcune cifre (alla fine si parlò di circa due milioni di donne violentate) che - pur arrotondate per eccesso - erano più che sufficienti per terrorizzare i civili inermi. Ma pure a ovest, dove erano gli Alleati a condurre le operazioni, si registrarono (anche se su scala più ridotta) casi di suicidi di massa. In questo senso Huber insiste molto sugli effetti nefasti di una propaganda nazista che per nove anni aveva plasmato le singole coscienze individuali dei tedeschi. Hitler non aveva cercato solo l’obbedienza assoluta, ma aveva stimolato i suoi «sudditi» ad essere protagonisti in prima persona, coinvolgendoli nei riti di una sorta di religione pagana incentrata intorno al «culto del Capo». I tedeschi erano stati chiamati a testimoniare una fede, ad accettare di essere «martiri» fino ad annullarsi in un progetto che non era solo ideologico o politico e che ne segnava la stessa dimensione esistenziale.
Con il crollo del nazismo, qualcosa si spezzò nelle profondità degli animi. Prima di suicidarsi erano già tutti crollati dentro, incapaci di misurarsi con l’abisso di disperazione in cui la sconfitta militare li aveva precipitati. Furono rari i casi di suicidi per sensi di colpa di fronte all’enormità dei crimini del nazismo; nel maggior numero dei casi quel gesto scaturì dall’incapacità di adattarsi alla realtà di un crollo mai nemmeno immaginato in tanti anni di deliri propagandistici.
Una spiegazione più accreditata tra gli storici si riferisce invece al carattere «eccessivo» della violenza sprigionata dal nazismo. Sia nell’eutanasia praticata su larga scala sui malati di mente, sia soprattutto ad Auschwitz e dintorni, la forma di esercizio del potere politico che rivelò l’essenza più profonda del nazionalsocialismo fu la fusione tra politica, Politik, (la lotta contro i nemici interni ed esterni dello stato - soprattutto gli ebrei - fino alla loro morte e all’annientamento) e polizia, Polizei, (la cura per la vita dei propri cittadini in tutte le sue estensioni). Ma questo carattere poliziesco della biopolitica, questa ossessione per la salute fisica e mentale del popolo, finì con l’assumere tratti talmente parossistici da rivolgere contro il suo stesso corpo i dispositivi protettivi che avrebbero dovuto tutelarli, come appunto accade nelle malattie autoimmuni.
Gli ordini finali di autodistruzione emanati da Hitler asserragliato nel bunker di Berlino ne costituiscono una testimonianza di impressionante evidenza. Alla fine, fu il Führer che ne aveva idolatrato la vita a chiedere la loro morte; e molti, moltissimi tedeschi lo seguirono in questa estrema follia.