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 2020  marzo 28 Sabato calendario

Il premier e il ruolo che verrà

Nella storia dell’Italia repubblicana a nessun uomo politico è toccata la fortuna che è toccata a Giuseppe Conte, anche se si può essere sicuri che per un ovvio senso di carità di patria lui sarebbe stato il primo a preferire che ciò non accadesse. Grazie tuttavia all’esplosione improvvisa dell’epidemia di coronavirus le cose però stanno davvero così.
Le quotazioni e la statura politica del presidente del Consiglio sono cresciute improvvisamente in una misura inimmaginabile prima dell’arrivo del Covid-19. È vero che la gestione della pandemia ha mostrato anche certi limiti della sua leadership: ma l’enormità stessa delle circostanze contribuisce ad attutirne il rilievo, come indicano i sondaggi che non a caso lo premiano grandemente. 
L’epidemia ha avuto innanzi tutto un effetto: ha dato a Conte e al suo governo un programma. Ricordiamo tutti la penosa condizione d’incertezza, di surplace e di sospettoso studio reciproco tra le varie forze di maggioranza – con conseguente condizione d’immobilismo – in cui ancora a metà febbraio il governo era immerso: che fare dopo la finanziaria? ci si chiedeva; e come tenere a freno la scalpitante volontà centrifuga di Renzi? e dopo l’Emilia-Romagna e la Calabria come affrontare le future elezioni regionali ormai in vista? Il coronavirus ha letteralmente spazzato via tutto, e nel giro di quindici giorni, con un crescendo impressionante, ci ha pensato una realtà del tutto indipendente dalla politica a imporre la propria agenda. D’improvviso, per decidere che cosa fare non c’è stato più bisogno di trattative, di vertici, bracci di ferro, di tweet e controtweet del primo e dell’ultimo venuto. O perlomeno ce n’è stato un bisogno infinitamente minore. In sostanza, infatti, sono state (e sono) le urgenze dell’ora a indicare le misure da prendere, mentre i se e i ma dei partiti della maggioranza sono stati per forza ridotti al minimo. Anche il contrasto delle opposizioni si è ritrovato fortemente impacciato e attenuato, correndo continuamente il rischio di apparire fuori luogo, aprioristico, intriso di politicismo, quando il Paese invece si trovava e si trova alle prese con ben altro che la politica. In un certo senso, insomma, con la pandemia la politica si è necessariamente tramutata tutta in amministrazione, nel fare. E di conseguenza anche la figura del presidente del Consiglio si è tramutata da quella precedente e non proprio esaltante di temporeggiatore-equilibrista, superspecialista della mediazione, in quella di capo di un esercito schierato contro un nemico mortale. Un esercito che obbliga chiunque a stare nelle sue fila.
Il fatto è che prima o poi la pandemia però finirà e allora Conte dovrà decidere che cosa fare del capitale accumulato. Il sistema politico italiano com’è oggi non gli lascia molte scelte. Una è quella di mettersi alla testa di un partito da lui fondato per tentare l’avventura elettorale in proprio. Con l’ovvio, micidiale e prevedibile effetto, però, di vedere la propria immagine divenire in breve l’immagine di un capofazione qualunque, magari costretto poi a scegliere chi mettere in lista, a contrattare, a resistere ai tentativi per avere un posto da parte di transfughi e marpioni di ogni risma. L’altra scelta è quella di diventare il «padre nobile» di un partito già esistente, in pratica o dei 5 Stelle o del Partito democratico. Ma «padre nobile» per l’appunto, non capo. Cioè invitato d’onore, nome illustre da citare e riverire, nulla di più. Se Conte pretendesse in uno qualunque dei due partiti un ruolo di comando è facile immaginare infatti che egli si troverebbe subito invischiato nella ridda delle correnti e dei loro giochi, dei tradimenti, degli sgambetti, delle alleanze congressuali. Anche in tal caso insomma, un futuro alquanto grigio e per nulla promettente.
Esiste tuttavia un’altra eventualità, specie se il tempo del contagio dovesse durare a lungo. E cioè che dopo la pandemia il sistema politico italiano non sia più lo stesso. Già oggi se ne colgono forse i primi segnali, ad esempio in quell’ambito cruciale della politica nazionale che sono da tempo diventati i talk show televisivi. Già oggi, se non m’inganno, certe figure di urlante provocatore macchiettistico, di fazioso spudorato, di politico di pronto intervento, sembrano aver fatto il loro tempo. Ma in generale è l’implacabile andamento delle cose che vale a rendere sempre meno sopportabili la chiacchiera vuota, le promesse a vanvera, il partito preso, la mancanza di serietà e di concretezza che si sente in troppi discorsi. A far apparire d’improvviso in tutta la loro mediocrità tanti politici di lungo corso.
Quel che sta accennando a cambiare è anche ben altro. Ciò che accade in questi giorni sta dimostrando ad esempio quanto sia importante l’unicità e la rapidità del comando. Non si tratta di mandare in soffitta il Parlamento, secondo i paralizzanti timori che da anni ci condannano all’immobilismo. Le opinioni di tutti sono preziose e tutti hanno diritto a dire la loro: è la prima regola della democrazia. Ma rimpallarsi per mesi una decisione tra due Camere identiche, dover convocare «tavoli» con decine di rappresentanti di categorie, di enti, di Regioni, di Comuni per varare un qualsiasi provvedimento, avere spezzettato ogni competenza tra mille autorità, far passare anni per scrivere il regolamento attuativo di una legge: queste sono tutte specialità nostrane di cui possiamo tranquillamente fare a meno. I tempi con cui si adotta una decisione non sono un optional: sono per una parte decisiva l’efficacia stessa di quella decisione. Oggi lo sappiamo, ne abbiamo ogni giorno la prova e forse non abbiamo più voglia di sopportarlo. Così come abbiamo più o meno direttamente la prova di quanto servano quasi sempre a nulla le centinaia di permessi, di certificati e autorizzazioni che ogni cittadino italiano è tenuto a presentare per fare od ottenere qualunque cosa. Avremo bisogno assolutamente di aria nuova in futuro. 
È questo ciò che oggi suggerisce con l’eloquente e drammatico linguaggio dei fatti quanto sta accadendo nel Paese. Suggerisce che una volta tornati alla normalità dovremo certamente cambiare qualcosa, e forse più di qualcosa, nel modo d’essere della nostra vita pubblica, della nostra politica, delle regole del nostro Stato. E chissà che proprio allora per l’attuale presidente del Consiglio non si aprano prospettive inaspettate.