la Repubblica, 28 marzo 2020
Il virus a due velocità
La fine dell’Europa o il suo salvataggio. L’Unione si è data quattordici giorni di tempo. Come se fosse una specie di quarantena, il tempo di capire la positività o meno al contagio. In queste due settimane c’è tutta la differenza tra far morire o far guarire l’Ue con la sua prospettiva e la sua moneta. Anche perché dietro quei quattordici giorni non c’è semplicemente il tentativo di raggiungere una mediazione tra falchi e colombe. Non si tratta del banale e tradizionale escamotage per rinviare una scelta, nel caso specifico l’opzione che riguarda gli eurobond e quindi la possibilità di socializzare una parte del debito pubblico. Purtroppo c’è qualcosa di più. C’è una dose di cinismo senza precedenti che mette in gioco l’esistenza stessa del futuro unitario. La distanza tra il fronte “mediterraneo” e quello “nordico”, infatti, nelle ultime 48 ore ha materializzato un incubo. Ha reso plastico ed evidente quel che tutti hanno sempre considerato un’ipotesi dell’irrealtà. Molti dei capi di Stato e di governo – dall’Italia alla Spagna fino alla Francia – hanno letto e interpretato lo slittamento imposto giovedì come una sorta di stress test senza rete. Non per l’Europa, ma per i singoli Paesi. Sostanzialmente l’inquietudine che ha attraversato il vertice dell’altro ieri ha assunto questi contorni: i cosiddetti rigoristi hanno preso tempo per capire quali saranno davvero gli effetti del coronavirus sulle loro specifiche nazioni. Olanda, Austria, Finlandia e Germania vogliono capire dunque se l’epidemia dilagherà anche nel loro territorio. Vogliono verificare se il contagio sarà così capillare come è stato in Italia, in Spagna e in parte anche in Francia. E nello stesso tempo cercheranno di capire se le conseguenze sul piano economico saranno altrettanto devastanti. Avevano insomma bisogno di tempo. Non a caso la richiesta italiana di aggiornare la riunione dopo dieci giorni – avanzata da Conte dopo un confronto teso e nervoso addirittura con il suo ministro dell’Economia Gualtieri – è stata fronteggiata da quella olandese che puntava a un nuovo appuntamento addirittura tra un mese. I quattordici giorni si sono quindi rivelati uno sprezzante compromesso. Perché l’esito della verifica – per alcuni inconsapevolmente, per altri consapevolmente – rischia di mettere in discussione l’Unione stessa. Se il virus, infatti, – nei progetti dei “nordici” – non dovesse provocare nel Nord d’Europa la medesima spirale infettiva e la stessa crisi economica, allora il no agli eurobond verrà confermato. E il no sarebbe accompagnato da un vero e proprio atto di accusa: il coronavirus si è propagato drammaticamente in Italia come in Spagna per le incapacità di quei Paesi. Le cui responsabilità non possono essere socializzate. Uno scenario – nei discorsi informali che i premier dell’asse Mediterraneo stanno svolgendo in queste ore – che oltre a rappresentare la vittoria finale degli egoismi nazionali, rischia di evolvere nella disgregazione finale dell’Ue. E a poco sono valse le giustificazioni che alcuni “falchi” hanno avanzato nel summit di giovedì scorso. Dall’olandese Rutte – il più duro – alle prese con una maggioranza di governo nel suo Paese fragile e sempre meno europeista, fino alla stessa Angela Merkel. Molto più incline a una intesa sebbene abbia ripetutamente ricordato che un eventuale accordo sugli eurobond dovrebbe superare in Germania l’ostacolo irto del voto da parte della Corte costituzionale. Un ragionamento che, per i “mediterranei”, però, nasconde altri due aspetti. Il primo consiste nel fatto che sostanzialmente la Germania a settembre entra nel suo anno preelettorale. E le accondiscendenze verso l’Ue in genere non sono un buon viatico per vincere nelle urne. Il secondo elemento è ancora più urgente: a giugno la Cancelliera assumerà la presidenza di turno dell’Unione. Un semestre che può diventare spinosissimo per Berlino. Nel gioco avvelenato del coronavirus, dunque, si stanno confondendo gli interessi nazionali con la sopravvivenza stessa della Comunità europea. Anche il messaggio lanciato ieri dal Presidente della Reppubblica Mattarella non è stato una ordinaria sollecitazione alla solidarietà tra partner ma un richiamo alla difesa di un progetto che si sta affacciando sull’orlo dell’abisso.