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 2020  marzo 27 Venerdì calendario

Parla la poetessa Chandra Candiani

Un maestro tibetano disegnò un giorno sul bianco di una lavagna il segno stilizzato di un piccolo uccello e chiese ai suoi studenti: che cos’è? In molti dissero: un uccello. E il maestro, scuotendo la testa: è un cielo vasto e in questo momento sta passando un uccello.
Chandra Livia Candiani, milanese, classe 1952, poetessa e traduttrice di testi buddhisti, racconta ne Il silenzio è cosa viva (Einaudi) la capacità del maestro tibetano di dare al proprio sguardo respiro, apertura, comprensione, lo stesso potere che Candiani attribuisce alla poesia, via d’accesso alla vastità, linguaggio che rende nominabile, sfaccettato, cangiante ogni oggetto, togliendo opacità. «Siamo cieli vasti e restare connessi alla vastità ci permette di vedere i fenomeni che ci attraversano, di riconoscerli, sentirli e guardarli svanire. Non è facile, si tratta di spiazzarsi, non essere più un centro ma una grande periferia sconfinata, veder sorgere e tramontare i fenomeni e accorgerci dell’amorevole sfondo che rimane e che non è di nessuno». La poetessa riflette su questi giorni comuni di forzata quarantena, di sospensione, di oscillazione fra il chiudere tutti fuori e il sentire di essersi chiusi fuori da tutto. Un orizzonte che si restringe o, paradossalmente, che si amplia? «La pratica regalata dal Buddha mi invita a stare con le cose così come sono senza volerle diverse, cercando di non rifiutarle, ma nemmeno di farmi sommergere. E quello che stiamo vivendo ora è un passaggio spaventosamente difficile», risponde.
«Io vivo molto in casa e molto da sola, sempre. Non è facile, qualche volta ci si sente tagliati fuori. In tempi normali, se ci si ferma e si assapora quel che si prova e ci si chiede “fuori da cosa?”, ci si accorge che si tratta di essere fuori da un mondo di illusioni. Il mondo dell’ambizione, del costante dover essere qualcuno di speciale. Tutte le esperienze sono esperienze e non solo quelle collettive, l’esperienza più solitaria che ci sia può contenere tutto il mondo se è scelta con occhi aperti e cuore sveglio. Così come l’esperienza più coinvolta nel mondo può diventare una forma orgogliosa e infestante di auto-riferimento e di vanità». Candiani non considera questo tempo di fermo obbligato una «sospensione dalla vita», piuttosto il suo opposto, «quintessenza dell’osservazione di cosa sto facendo della mia esistenza, del mio pensiero, del mio tempo, di quello che conta e di quello che è superfluo, delle relazioni buone e di quelle che non nutrono o fanno danno. Di come ricevo il mondo e di cosa gli porto in dono».
L’essere forzatamente fermi come occasione di cambiamento, dunque? «Se ricostruiamo in casa un mondo in miniatura e passiamo da un’attività a un’altra, se telefoniamo in continuazione o stiamo per ore in rete, non credo che sarà occasione di cambiamento. Questo tempo difficile è una grande svolta per noi: le guerre, le inondazioni, i terremoti, le epidemie sono sempre altrove. Ma questa volta la nostra vita è cambiata in pochi giorni, la fugacità, la non solidità di tutto è evidente, ci riguarda. Il mito del controllo è una statua andata in pezzi. La malattia e la morte sono qui, vicinissime. Eppure...». Eppure si avverte la fretta, fretta che tutto passi, fretta di tornare al mondo di prima, come se niente fosse accaduto. Ne Il silenzio è cosa viva c’è un altro insegnamento e questa volta viene dal Giappone. Scrive Candiani: «Una volta ho conosciuto una maestra giapponese della Cerimonia del tè. Aveva lasciato il suo Paese molto giovane per sposare uno straniero. Dopo alcuni anni era tornata a Tokyo per un progetto di lavoro del marito che sarebbe durato due anni. Telefonò dunque a un maestro della Cerimonia del tè per diventare sua allieva. Il maestro l’ascoltò e poi le chiese: quanto tempo hai detto che ti fermi? Beh, per un tempo così breve sì, posso insegnarti a camminare sui tatami verso la teiera e le tazze».
È il tema del tempo: aspettative, ambizioni, pretese vanno rimodulate? «Qualcosa di nuovo arriva se mi fermo e respiro; se sento il legame invisibile con tutto e tutti; se sto con quel che fa male e lacera e fa sentire che il mondo si scuce, crolla; se mi calo in quello che sto facendo, che sia una traduzione, una lettura, lavare i vetri o i pavimenti, qualsiasi attività fatta con consapevole preziosità diventa collegamento con tutti e con tutto. Il tempo casalingo è il lusso di avere ancora una quotidianità che rassicura. Per me il tempo e lo spazio quotidiani sono il sacro. Questo ovviamente non significa non voler comprendere la complessità della situazione, tutt’altro. È ovvio che tutto questo sta accadendo perché non vogliamo fermarci, perché vogliamo sempre crescere, aumentare, essere ovunque, invadere tutto, appropriarci di tutto, diventare tutto, dire di tutto. Non è solo una tendenza psicologica: è un discorso politico. Sono almeno sei mesi che a ogni richiesta pubblica rispondo il più gentilmente possibile: “Grazie, resto a casa”. Sono stanca, mi sento un ciarlatano, mi si chiede di tutto. E sento le illusioni più diverse circondarmi. Io non so niente, signore e signori, ho solo una Via e la seguo con cuore appassionato. Pubblicare libri non significa sapere qualcosa. Essere gentili con qualcuno, ascoltare, accarezzare con il silenzio il dolore, lottare, sbagliare e pentirsi, parlarsi sul serio anche quando fa male, dirsi il bene anche quando non ci si può più toccare e le parole intimidiscono, questo è sapere qualcosa. Una volta, prima di una lettura poetica, ho detto a un albero: “Ho paura, cosa faccio adesso?”. Lui mi ha risposto: “Non essere meravigliosa”. Che lezione di stile di vita».
Candiani non è cantore di astrattezze, «indosso la mia storia», dice, «e la mia storia di ora è che sono abituata alle emergenze, ho fatto spesso bagagli veloci per scappare, ho dovuto spesso restare dove non volevo, salvarmi dalla violenza minacciata o eseguita. Ho vissuto tante volte nel terrore, non è un vanto, è un fatto, e adesso non ho paura. Seguo le direttive intelligenti per non fare male a me e per non fare male agli altri, sento quanto questo male ci avvicini, nonostante il metro di distanza. Fino a pochi giorni fa vedevo solo persone nascoste dietro gli schermi, frettolose, anche negli abbracci. Così sicure del perdurare. Oggi siamo toccati tutti dall’impermanenza. Quindi siamo più vicini alla vita. Tutto cambia non significa che tutto muore, ma che tutto muta continuamente, è musica. Noi non sentiamo il nostro corpo e così come possiamo sentire quello dell’altro, non sentiamo quando sta tremando di fianco a noi, quando ha paura, quando si sente offeso e ferito. Forse il metro di distanza ce lo insegnerà?».
Imparare a stare: questo insegna la pratica buddhista. Ma stare ora, qui, non è mai sembrato così difficile... «Sì, questa volta tocca anche a noi. Ma la difficoltà sta in gran parte nell’immaginazione, nei pensieri tormentosi, nell’incapacità di abbandonarci a una fiducia senza oggetto, vastissima, e credere solo nell’azione personale e diretta. Ma la non-azione non è passività, è occuparsi anziché preoccuparsi, è credere che fare silenzio e inviare benedizioni a tutti senza distinzioni sia una profonda azione politica. E levare, levare, levare. Troppe parole sono al mondo, troppi pochi sguardi e sorrisi, poca accoglienza, troppa insistenza sull’insieme, anziché un po’ di spazio per quella radicale solitudine che permette di ascoltare le urla del mondo e custodirle. L’azione nasce dopo, dalla giustezza della percezione».
Candiani scrive che «non sappiamo tollerare di non capire». Ed è vero: se non si capisce qualcosa, si fa subito ricorso alla dietrologia. “Tollerare di non capire” ci priva della nostra arma migliore, la razionalità, consegnandoci a quella che temiamo sia una disfatta. Ciò che sta accadendo oggi può insegnare la “tolleranza del non capire”? «La razionalità è molto limitata e ristretta senza il sogno, l’immaginazione, la buona follia, senza il vuoto del non sapere niente, senza la meraviglia e lo stupore del non so. Il mio mantra di questo momento è: boh. Si aprono tante possibilità nel non sapere. È così evidente quando la persona con cui stiamo parlando crede di saper tutto e qualsiasi cosa tentiamo di dire ripete: lo so, lo so. Nessuna possibilità, nessuno spazio di ricerca. E poi abbiamo davvero bisogno di un’arma? Forse è disarmandoci, vacillando e tremando che a tentoni scopriremo vie nuove per stare al mondo con rispetto o per andarcene con grazia. Come? Svuotando la mente e lasciando che arrivino in noi visioni nuove, non auto-centrate, limpide. Ma quando siamo davanti a un vero cambiamento, spesso ce ne andiamo.
Lo vedo tante volte nei gruppi di meditazione: quando a qualcuno non resta altro che cambiare, che smettere comportamenti lesivi, gira le spalle e se ne va a cercare qualcos’altro che gli permetta di non cambiare e di stare bene così». Non essere visti e presi in considerazione, ecco la principale paura, «per questo avere una relazione intima con l’invisibile e il silenzio è un farmaco sia per gli invisibili sia per i prepotenti». E c’è il gigantesco tema della compassione: ne usciremo più compassionevoli? È possibile – come scrive lei – inviare compassione a chiunque in difficoltà, senza chiedere ricevute di ritorno? «Se non sentiamo compassione per noi, per le nostre meschinità e fragilità, se non conosciamo quello che sta dietro le nostre corazze, come possiamo avere compassione per gli altri? Praticare la compassione non è difficile. Non guariamo: auguriamo la guarigione. Non diamo consigli: benediciamo da lontano. Nasce un senso di sorellanza e fratellanza, un insieme senza esclusioni, perché ogni pratica di compassione termina con la frase: che tutti gli esseri (non solo gli umani dunque) in tutte le direzioni dello spazio possano essere liberi dalla sofferenza, che possano essere liberati».
Nella casa della poetessa c’è una stanza vuota: insegna, racconta Candiani, «ad essere contenitore vuoto, ma pronto, capace, accogliente. È un rifugio che mi espone totalmente, come la consapevolezza, mi protegge, mi custodisce, mi rivela intera a me stessa». È la stanza della meditazione. Le pratiche spirituali sono un’àncora? «Le pratiche spirituali non possono essere solo rassicuranti, chiedono la verità del sentire il male che subiamo e che facciamo, chiedono responsabilità etica e solo dopo è possibile l’abbandono alla fiducia nell’intelligenza della vita senza negazione di quel che accade, senza scappare dal dolore.
Il dolore ci attraversa come ci attraversa una lama di luce. Se non aggiungiamo spiegazioni, cause, monologhi, narrazioni, se lo sentiamo e respiriamo perché è solo un visitatore, perché una volta accolto se ne andrà, questa è meditazione. È una cosa che sappiamo fare, ma non sappiamo di saperla». Una poesia per questi giorni di spaesamento? «Seguire il respiro con delicata cura, lasciar andare i pensieri come uccelli che si posano, benedire il mondo».