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 2020  marzo 27 Venerdì calendario

C’era una volta il weekend

C’era una volta il weekend. E ci sarà ancora. Ma in questo tempo sospeso, fatto di giorni tutti uguali, può essere di consolazione ricordare che abbiamo perduto (momentaneamente) qualcosa che non è sempre esistito, quindi di valore non assoluto, ma relativo. In un saggio del 2003 dal titolo Aspettando il weekend l’urbanista scozzese di origini polacche Witold Rybczynski ricostruisce la storia del fine settimana. Si lega, va da sé, all’esistenza della settimana stessa, che può sembrare una scansione naturale, ma è un’altra convenzione, affiorata nel corso della Storia. Come è nata? Per trasmissione orale. Hanno influito la concezione magica del 7, affermatasi a Babilonia e un’intuizione, confermata da ricerche scientifiche, per cui esiste un’oscillazione biologica interna al nostro corpo avente un ritmo di 7 giorni. Nel 321 d.C. Costantino emise un editto che imponeva l’astinenza dal lavoro nel giorno del sole (sunday, la domenica). Dopodiché ogni civiltà ha inserito le sue pause. Gli ebrei lo shabbat. I musulmani il venerdì. Gli indiani Hopi una buona metà del calendario annuale. L’Unione Sovietica istituì una giornata di riposo ogni 5, però a turni, e non funzionò: difficilmente lavoratori nella stessa famiglia riuscivano a farla coincidere. Soltanto la Cambogia di Pol Pot negli anni Settanta cancellò ogni festa.
Ma il weekend, come e quando nasce? Alcune informazioni da rivendersi nelle chiacchierate mentre si resta a casa: la parola apparve per la prima volta su una rivista inglese nel 1879 a proposito di una “usanza dello Staffordshire” (che partiva però dal sabato pomeriggio). La prima fabbrica a ottenere la settimana di cinque giorni fu, nel 1908, una filanda del New England, poi un sindacato di lavoratori ebrei la propose nel 1929, decenni prima che, in Polonia, Solidarnosc ne facesse una delle sue principali rivendicazioni. La diffusione è stata universale, seppur con una sorta di “fuso giornaliero”. Da anni è un best seller un libro pubblicato a inizio millennio da un espatriato negli Emirati, Jeremy Williams. Si tratta di una sorta di guida agli affari nel Golfo e nel mondo islamico il cui titolo è Don’t they know it’s Friday? (ovvero, “Ma non sanno che è venerdì?"). È la frase ricorrente quando da quelle parti si ricevono telefonate di lavoro durante il loro fine settimana. Le sole eccezioni al weekend permangono in alcune parti di Israele, dove fu sempre osteggiato perché toglie unicità allo shabbat e in Giappone, dove non esiste una parola che significhi “tempo libero”. Marx lo ha celebrato come una conquista operaia, mentre Pascal riteneva la ricerca del divertimento una causa dei mali dell’umanità. Resta innegabile la corrispondenza tra la diffusione del weekend e quella del benessere, l’apparizione dell’auto, la possibilità dei viaggi, l’invenzione degli sport e degli spettacoli. Chi sostiene che in sua assenza la produttività crescerebbe non ha fatto bene i compiti e i conti: in Inghilterra nel 1914, per fronteggiare le necessità della guerra, si impose di lavorare anche la domenica e la produzione diminuì. Senza weekend saremmo più poveri, nel portafoglio e nello spirito. Ci consente una vita più ricca, se non fosse che l’impegno è slittato dai giorni feriali a quelli festivi e si sono quasi invertiti i ruoli fra tempo sacro e profano. Più che una pausa, un secondo lavoro. Per molti, quello vero. Un trasferimento non soltanto di passione, ma anche di dedizione, aspettativa, realizzazione con una necessità di pianificazione antitetica alla distensione. E adesso?
Adesso siamo sospesi in un tempo che ha riacquisito il flusso della genesi, un continuum senza sussulti, senza un punto di svolta. Non ci sembra possibile: ma questa è la verità del tempo, tutto il resto è convenzione. Impariamo a diluire i momenti di svago, anziché accumularli. Ci accorgiamo di non sapere esattamente in quale punto della settimana ci troviamo perché la settimana è evaporata. Vantaggi? Non abbiamo più la nevrosi domenicale diagnosticata nel 1919 dallo psicologo ungherese Sandor Ferenczi, una reazione negativa all’eccesso di libertà, lo scatenarsi di istinti repressi associati alla maggior disponibilità del proprio tempo, un horror vacui in cui un’intera società poteva affogare. Niente tristezza del lunedì, legata all’abbandono del naturale ritmo biologico e alla ripresa di attività poco amate. Ma neppure l’eccitazione crescente nei giorni che corrono verso la meta desiderata. Siamo pre-babilonesi e l’unico tempo conosciuto ora è quello dell’attesa: non del venerdì pomeriggio ore 17, ma del rompete le righe che ci riporterà sulle strade del mondo. Come per ogni cosa ci domandiamo: che ne sarà dopo? Resterà qualcosa o tutto verrà travolto? Avremo appreso una lezione o solo subìto un castigo che giudicheremo immotivato? Riprenderemo a concepire la sosta come il centro della nostra vita o la rimoduleremo con inedita sapienza? All’uscita di ogni tunnel non conta tanto quel che c’è fuori, ma quel che ne esce. Sarà un caso ma tutte le date di possibile fine quarantena sono state piazzate in un weekend.