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 2020  marzo 26 Giovedì calendario

Il mio amico Arbasino

Alberto Arbasino, che ci ha appena lasciato, con mio grande dolore, era nato il 20 gennaio 1930: io esattamente un mese dopo, il 20 febbraio 1930. Questa vicinanza ci piaceva molto. Lui era nato a Voghera: io a Firenze (per caso) e poi avevo lasciato Firenze per Torino. Siamo stati legati molto presto, nella primavera del 1960, quando eravamo giovani, frivoli e incompetenti. Allora Italo Pietra, uomo severissimo, ma molto preciso e intelligente, ci invitò a scrivere sul Giorno, che egli dirigeva, e che era allora un giornale molto importante (o che si riteneva importante). Era un giornale ricchissimo, finanziato dall’Eni, cioè da un uomo geniale come Enrico Mattei, che morì qualche anno dopo in un incidente aereo, ancora misterioso. Si dice (ma non è affatto certo), che l’apparecchio sia stato sabotato dalle cosiddette “Sette sorelle”, cioè dalle grandi compagnie petrolifere che ritenevano Mattei pericolosissimo per i loro interessi. Ma tutto questo resta dubbio o misterioso.
Il Giorno non assomigliava a nessuno degli altri giornali italiani; e, sopratutto, era l’esatto opposto del Corriere della Sera, che era allora un giornale molto tedioso, letto (o consultato) da avvocati e ingegneri ricchi e potenti.
Il Giorno era piano di stranezze, che Mattei e Pietra avevano accortamente calcolato. Per esempio, pubblicava dei fumetti: scandalo immane; fumetti buffoneschi (di Jacovitti) che attraevano i lettori giovani, ma anche anziani. Gli articoli politici che nel Corriere avevano una lunghezza appena inferiore a quella dei Promessi sposi, erano brevi, taglienti, spiritosi: ostili a Giovanni Malagodi, segretario del Partito liberale, simbolo della Confindustria e di un potere economico immaginario. Il Giorno favoriva le imprese di Stato, le importazioni petrolifere, il cupo tiranno d’Egitto, Nasser, e i movimenti algerini di resistenza alla Francia, ma non De Gaulle. Combatteva la Fiat, la Falck, la Lancia, la Pirelli, e chissà chi. Detestava l’intera famiglia Agnelli. Italo Pietra ed Enzo Forcella scrivevano ogni giorno i fondi politici: Francesco Forte, quelli economici; mentre molti eccellenti professori universitari discorrevano volentieri di ogni cosa, sopratutto di ciò che non conoscevano affatto, come fanno quasi sempre i professori universitari illustri e famosi.
A me, lo confesso, Il Giorno piaceva molto. Era un giornale lieto, come i giornali, anche quelli di oggi, non sono mai, giacché il loro proposito principale è di diffondere tedio. Gli articoli politici di Mario Missiroli, direttore del Corriere della Sera, inducevano costernazione e disperazione. La pagina culturale del Corriere era così intelligente, che considerava Carlo Emilio Gadda la vergogna della letteratura italiana. La pagina culturale del Giorno era affidata a Paolo Murialdi, un uomo amabile, mite, dolcissimo, tollerantissimo: forse troppo tollerante, almeno con me, a cui permetteva libertà indecorose, come atroci stroncature di Pratolini e di Tobino. Le pagine culturali uscivano il mercoledì. Grazie a Pietra e a Murialdi, che erano stati partigiani (e partigiani di prim’ordine), nel giornale soffiava ancora l’aria lieta e ardente della Resistenza.
Nessuno rimpiangeva Claretta Petacci: nessuno compiangeva Mussolini, o Galeazzo Ciano, o la moglie di Galeazzo Ciano, o Bottai, e nemmeno donna Rachele, o il prodissimo navigatore Italo Balbo; né tantomeno l’orribile federale di Cremona, Farinacci. Durante il fascismo, sui giornali scrivevano letterati eccellenti, con vaghe simpatie fasciste, come Emilio Cecchi, ma venivano tollerati sul Giorno. Qualcuno tentava persino di leggere Il Mulino del Po di Riccardo Bacchelli, un romanzo immenso e (almeno per me) impraticabile.
Con l’approvazione di Paolo Murialdi, che detestava qualsiasi litigio e contrasto, Arbasino ed io ci dividevamo amichevolmente la pagina del mercoledì dedicata alla letteratura. Il motto di Arbasino era: «Supera la fontiera di Chiasso». Era bravissimo: molto più bravo di me. Conosceva bene la letteratura di lingua inglese: anche quella più rara, come Firbank, e il più stravagante Dickens, e il delizioso e stravagantissimo Tristram Shandy di Sterne.
Arbasino era sempre in movimento. Leggeva, leggeva, leggeva, appropriandosi di ogni cosa. Lo trovavi dappertutto, anche dove non avrebbe dovuto stare. Aveva qualche gelosia per Giorgio Bassani, che lo ricambiava. Forse le sue cose più belle e divertenti erano i viaggi, le corrispondenze, le polemiche, le chiacchiere, nelle quali era assolutamente impareggiabile. La sua chiacchiera era lieta, volubile, sfacciata, qualche volta arrogante. Fu l’unico, credo, a creare uno strano movimento: i Nipotini dell’Ingegnere; l’ingegnere era, naturalmente, Carlo Emilio Gadda, l’autore di tutti i capolavori in prosa della letteratura italiana moderna. Arbasino aveva un culto per L’Adalgisa, La cognizione del dolore e il Pasticciaccio; e ne parlava con rara precisione. Nel più sottile senso della parola, era un uomo naturalmente buono.
Se andavi a casa sua, vicino a Piazza del Popolo – piena di lunghi corridoi – ci trovavi continuamente Audrey Hepburn, che mi piaceva molto. Avrei visto dieci volte Vacanze romane, e il film di cui non ricordo il titolo, dove impersonava la figlia dell’autista di una famiglia potente.
Una cosa mi piaceva molto. Arbasino era sempre altrove. Se non era a Voghera, era a Milano: se non era a Milano, passeggiava velocemente, con un passo che non si arrestava mai, per le strade di Roma: se non era a Roma, era a Londra, o a Pietroburgo, o a Pechino, o a Buenos Aires, o al Polo Nord; soltanto Giorgio Manganelli era veloce come lui. Aveva simpatia per Fellini, quest’uomo meraviglioso e terribile. Fece solo un errore: quello di architettare un libro come i Fratelli d’Italia, che correggeva di continuo, aggiungendo brani senza nesso, allungandolo, allungandolo, moltiplicandolo.
Come Manganelli, ebbe una rapida passione per l’avanguardia. Ma che calore emanava! Che letizia! Amava Robert Musil e L’uomo senza qualità, che in Italia non piaceva a nessuno, perché tutti, persino Gadda, lo trovavano troppo difficile. Lui, invece, lo capiva benissimo. Forse Ulrich era lui – un mite Ulrich lombardo – sebbene non sapesse nulla di matematica.