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 2020  marzo 26 Giovedì calendario

Miniere chiuse e pochi lingotti

I lingotti di piccola taglia, quelli preferiti dai piccoli investitori, sono introvabili per la serrata di tre grandi raffinerie svizzere. Le miniere del Sudafrica hanno chiuso per tre settimane i battenti per rispettare la quarantena imposta dal governo di Pretoria. E il mercato dell’oro, travolto dall’effetto coronavirus, è andato in tilt, costringendo le autorità di sorveglianza a intervenire per tranquillizzare gli operatori («garantiremo il funzionamento degli scambi», ha assicurato il London Bullion Market) e obbligando il Chicago Mercantile Exchange a inventare dalla sera alla mattina un nuovo contratto derivato per evitare la fibrillazione delle quotazioni, schizzate al rialzo del 12% in tre sedute prima della pausa di mercoledì.
Lo scoppio della pandemia ha in effetti spedito sull’ottovolante già da qualche settimana il metallo giallo: nelle prime fasi del contagio, con la Cina in lockdown, il “bene rifugio” per eccellenza aveva iniziato a salire, balzando dai 1.500 dollari l’oncia di inizio anno fino alla soglia dei 1.700 il 9 marzo. Quando il Covid è sbarcato in Europa e negli Usa e le Borse sono crollate, l’oro ha mandato in replica lo stesso copione del crac Lehamn. Mettendo la retromarcia e scivolando a 1.470 dollari, schiacciato dalle vendite dei trader in difficoltà costretti a vendere gli strumenti finanziari su cui erano in attivo per coprire le perdite accumulate con le azioni. Lunedì scorso però il ciclo si è invertito: il Canton Ticino ha obbligato a chiudere Valcambi, Pamp, e Argor Heraues, tre raffinerie che da sole lavorano 1.500 tonnellate di lingotti l’anno, un terzo della produzione mondiale, le compagnie aeree hanno sostanzialmente smesso di volare e il Sud Africa, alle prese con il coronavirus, ha bloccato le miniere. Un combinato disposto che ha fatto fibrillare il mercato. I lingotti di piccole dimensioni (attorno al chilogrammo o anche meno) e le monete d’oro – il classico bene rifugio dei piccoli risparmiatori – non si trovano più e quei pochi rimasti hanno tempi di consegna attorno ai 15 giorni. «Nelle ultime tre settimane ne abbiamo venduti la stessa quantità piazzata sul mercato nell’intero ultimo trimestre del 2019» hanno spiegato dalla Pamp. La scorta di lingotti più grandi da 400 once (11,3 kg.) – quelli trattati dalle banche centrali e dai grandi investitori – è ampia. Ma oggi come oggi spedirli in giro per il mondo è un’impresa. Complicata dal fatto che sul mercato londinese si scambiano i pezzi da 400 once mentre su quello Usa si usano quelli da 100. Una situazione imprevedibile dagli effetti paradossali, con prezzi molto diversi per la stessa materia prima tra le due parti dell’Atlantico e con valutazioni molto differenti tra l’oro “virtuale” – quello trattato con i derivati, pure scommesse finanziarie che non prevedono il passaggio di mano di materia prima – e quello “fisico”, le operazioni reali in cui il venditore gira al compratore la materia prima reale.
L’unica certezza, sostiene Goldman Sachs in un rapporto fresco di stampa, è che l’oro dopo le difficoltà delle scorse set timane è destinato a salire ancora «perché rimane l’ultima valuta di sicurezza». L’obiettivo della banca d’affari Usa è quota 1.800 entro 12 mesi e «il momento di comprare è ora» sostiene, perché nella crisi del 2008 il metallo giallo ha iniziato a salire nel momento in cui la Fed è scesa in campo con le maxi-iniezioni di liquidità sul mercato. Stesso copione andato in onda negli ultimi giorni.