Avvenire, 26 marzo 2020
Santa Caterina e gli appestati di Siena
In questi tempi di epidemia nuova, la storia religiosa ci ricorda di quelle straordinarie personalità del mondo religioso che si impegnarono in prima persona per curare, assistere, i malati di peste che la storia d’Italia ha visto scorrere nei secoli nei nostri borghi e città. E fu proprio la patrona d’Italia, santa Caterina da Siena, una di queste grandi figure femminili che affrontò senza paura il morbo per stare vicino ai malati. Un episodio forse meno noto della storia della mistica toscana, che merita di essere ricordato. Ce lo racconta, tra gli altri, una grande voce poetica, Ada Negri, nel suo libretto biografico dedicato alla santa senese (ristampato da La fontana di Siloe nel 2017).
«Il coraggio della sua carità non conosce limiti»; ella misura un «inflessibile indipendenza dalle convenzioni, dai superficiali doveri, dalle critiche del mondo. Il mondo non la riguarda che perché contiene innumerevoli anime da conquistare, amare, salvare», scrive la grande poetessa lombarda, offrendo uno sguardo davvero luminoso, toccante dello spirito cateriniano. Ecco che Ada Negri ci racconta di Caterina che come san Martino offre a un mendico il suo mantello, quello nero del Terzordine domenicano di cui faceva parte, «non avendo altro da offrigli sull’istante». Alle rimostranze degli amici, rispose: «Preferisco essere senza mantello che senza carità».
Ardimentosa e mai doma, Caterina, che aveva ricevuto nel cuore «il cuore del mondo», di fronte a malattie terribili come lebbra e peste, pur di salvare anche i nemici «Ella non teme d’inghiottire la marcia della piaga cancrerosa di cui soffre la sua malvagia nemica, la Mantellata Andrea, pur di dimostrarle che più ne è odiata più l’ama e più vuole la sua eterna salute; né di porsi nel rischio d’infettarsi di lebbra, curando notte e giorno, nel lebbrosario di S. Lazzaro, la vecchia Tecca, da tutti aborrita per la sua cattiveria». Davanti alla peste dell’estate del 1374, «ella è dappertutto, nell’ospedale, nei ricoveri, nelle più luride case, ad assistere infermi, a confortar moribondi, a vegliare i morti. Aiuta anche a seppellire i cadaveri. Ha tre guardie del corpo, tre fedeli che non l’abbandonano nella fatica misericordia: padre Raimondo da Capua, l’eremita fra Santi, fra Bartolomeo Dominici». La biografa Edgarda Ferri ricorda che Caterina assisteva i malati nell’ospedale di Camporeggio, destinato agli abitanti della contrada dell’Oca, dove abitava, portandosi una fiala odorosa legata al polso, una lanterna a olio per farsi lume durante gli spostamenti notturni. Lo scrittore inglese Langton Douglas nel suo raro testo dedicato alla grande santa, ricorda come quando la peste «si rovesciò» sulla città, con le altre terziarie domenicane si recava di continuo «e liberamente a visitare gli ammalati e i moribondi, ed incurante del pericolo, non tenendo in conto alcuno la salute propria, là dove si erano verificati i casi peggiori ella si proferiva apprestando a tutti conforto ed aiuti». L’opera di Caterina, rilevava il Symond, fu quella di una donna: «portar la pace, soccorrere gli afflitti, fortificar la Chiesa, purificare i cuori che la circondavano».