Il Messaggero, 26 marzo 2020
Intervista allo scrittore Daniele Mencarelli
Quanto coraggio serve per mettersi a nudo sulla pagina? Il recente successo di Joker al cinema e ancor prima le teorie di Franco Basaglia, hanno aperto dei varchi culturali ma ai nostri occhi, borghesi e benpensanti, la malattia mentale è spesso intesa come una colpa. Con il suo nuovo romanzo Tutto chiede salvezza (Mondadori, pp.204 19) ufficialmente in corsa al Premio Strega, proposto da Maria Pia Ammirati il romano Daniele Mencarelli (classe 1974) ha scelto coraggiosamente di affrontare il non-detto, proseguendo in prima persona quel cammino di disvelamento iniziato con le raccolte poetiche e proseguito con il suo primo romanzo, La casa degli sguardi. Stavolta Mencarelli apre le porte di un reparto di psichiatria, riporta indietro il tempo all’estate dei mondiali americani del 1994 raccontando i suoi vent’anni e quella settimana durante la quale subì un tso, un trattamento sanitario obbligatorio, dopo aver quasi ucciso il proprio padre. Fra il caldo asfissiante del reparto e le nevrosi degli altri cinque pazienti, Mencarelli chiede al lettore di abbandonare tutti i pregiudizi, nel racconto intimo, autobiografico, persino ingenuo, di anime lasciate scivolare alla deriva in un mondo che non accetta ciò che esula dagli standard della normalità.
Mencarelli, come sta vivendo questo momento?
«Con grande fatica, come tutti. Egoisticamente non posso che dolermi del fatto che tutti gli impegni pubblici per incontrare i lettori siano stati cancellati. Ma vedo anche un’assonanza di fondo con il libro, l’idea che quando siamo più nudi, più esposti, il desiderio di salvezza torna prepotentemente in superficie e sentiamo il richiamo del sangue».
Il suo libro è ufficialmente in gara al Premio Strega. Cosa prova?
«È stata una bellissima notizia, amplificata dal momento di emergenza che stiamo vivendo. Le librerie sono chiuse e far parte della dozzina permetterà al romanzo di restare in vita sino alla fine di questo drammatico momento».
Scrive: possibile che nessuno s’accorge che semo come ’na piuma? Basta ’no sputo de vento pe’ portacce via.
«Uno dei tranelli più pericolosi è l’idea che tutto sia assolutamente inattaccabile, inscalfibile. Invece stiamo vivendo un frangente in cui interi sistemi cascano giù, palesando la precarietà delle nostre vite comodamente vissute in castelli di carta».
Da La casa circolare passando per la poesia di Tempo circolare sino alle pagine di questo romanzo, tutto collegato da un disperato fil rouge?
«Assolutamente. L’approccio linguistico per sottrazione è il lavoro del poeta che cerca la liricità e fa spazio attorno alle parole, andando a capo, aspirando all’elemento bianco della pagina. Nella poesia agisco come una macchina da presa che racconta ciò che vede, invece, l’approdo alla narrativa è figlio del ripensare ad alcuni fatti emblematici della mia vita, proprio come questa settimana di TSO, un controcanto necessario per tirare le somme con il narratore immerso nel contesto».
Questo viaggio narrativo a ritroso proseguirà?
«Sì, ci sarà un ulteriore passo indietro. Ho deciso che racconterò fatti vissuti a 17 anni, un nuovo movimento di macchina per raccontare in prosa elementi che sono già stati al centro della mia poesia. Avrei già voluto iniziare a scriverlo ma devo prendere le misure in questo inedito tempo sospeso».
Cosa prova mettendosi a nudo, scoprendo e rivelando le sue fragilità al lettore?
«L’elemento personale è la scintilla dell’atto creativo. Ma non può esaurirsi tutto lì. Racconto fatti borderline, sconosciuti a molti, tuttavia la sperimentazione e l’autodistruzione in cui affonda il personaggio è qualcosa che riguarda tutti».
La salvezza come tema universale?
«Certamente. Chi di noi non ha mai desiderato di proteggere la persona amata per poi dover ammettere che ci sono cose che sfuggono al nostro controllo? Possiamo costruire cattedrali di nevrosi ma le cose accadono e solo i pazzi pensano davvero di poter dominare tutto».
Il successo mondiale di Joker e altri libri che hanno raccontato il disagio psichico hanno aperto una porta. Segnali positivi?
«Parlare di un tema, strapparlo alle grinfie del tabù è sempre un bene. Nessuno vuol negare l’esistenza della malattia mentale, ci mancherebbe, ma oggi vedo palesarsi un pericolo ancor più grave dell’ostinato silenzio».
Ovvero?
«Stiamo assistendo ad una profonda medicalizzazione dell’essere umano, soprattutto nel mondo degli adolescenti. Oggi la vitalità, la fame di vita, può persino essere presa come sintomo di una malattia. E allora mi domando: che fine ha fatto la ricerca emotiva propria dei poeti? Ultimamente riprendo in mano i testi di Caproni e il suo ragionare sulla morte, lo slancio d’un uomo a caccia d’una preda, oggi riusciremmo ancora a non fraintenderlo, a non bollarlo come una dichiarazione di un depresso cronico? Non possiamo ridimensionare tutto a sintomo e in quel caso, come potremmo osservare ancora l’arte senza sensi di colpa?».
Lei è padre. Le sembra che anche il mondo della scuola sia mutato?
«Sì, è cambiata la prospettiva. Prima si cercava di cogliere i primi segnali di un talento potenziale, oggi sembra si voglia andare a caccia di quegli elementi fuori standard in una crescita normale. Ecco, lo ammetto, questo elemento culturale mi spaventa».