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 2020  marzo 24 Martedì calendario

Biografia di Alberto Arbasino

Alberto Arbasino (Voghera 1930-Voghera 2020). Scrittore. «La carriera dello scrittore italiano ha tre tempi: brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro». 
• Vita Laurea in Legge alla Statale di Milano, fu assistente di Diritto internazionale a Milano e a Roma, ma passò presto alla letteratura esordendo nel 1957 con Le piccole vacanze, seguite nel 1959 da L’Anonimo lombardo. Tra i fondatori del Gruppo 63, pubblicò in quell’anno la prima versione del suo romanzo più famoso, Fratelli d’Italia, rielaborato nel 1976 e di nuovo nel 1993. Altri romanzi: Super-Eliogabalo (Feltrinelli, 1969), La bella di Lodi (Einaudi, 1972), Specchio delle mie brame (Einaudi, 1974). Tra le sue raccolte di saggi Parigi o cara (Feltrinelli, 1960), Certi romanzi (Feltrinelli, 1964), Grazie per le magnifiche rose (Feltrinelli, 1966), Un paese senza (Garzanti, 1980), Mekong (Adelphi, 1994), Lettere da Londra (Adelphi, 1997), Paesaggi italiani con zombi (Adelphi, 1998), Marescialle e libertini (Adelphi, 2004), Dall’Ellade a Bisanzio (Adelphi, 2005), America amore (Adelphi, 2011), Pensieri selvaggi a Buenos Aires (Adelphi, 2012), Ritratti italiani (Adelphi, 2014), Ritratti e immagini (Adelphi, 2016). 
• Un nonno presidente del partito liberale di Voghera, una bisnonna che a fine Ottocento produceva latte e formaggio nel Lodigiano. Il padre, farmacista, lo indirizzò verso solidi studi giuridici. Ha detto di aver avuto per maestro Carlo Emilio Gadda, «forse perché anche lui non ha fatto Lettere» (a Gadda dedicò L’ingegnere in blu, Adelphi, 2008).
• «La mia vita non è stata nulla di così speciale, è quella di uno nato negli anni Trenta che ha fatto l’università a Milano, in quella Milano dove c’erano grandi compagnie teatrali. La Scala presentava ogni anno 25 spettacoli nuovi con Maria Callas, Herbert von Karajan e Luchino Visconti. In una stessa sera si poteva scegliere tra la Scala, il Piccolo, Totò al Teatro Nuovo e la Wanda Osiris al Lirico. Per non parlare di poeti, scrittori, intellettuali che animavano la vita culturale di Roma e Milano. Cominciamo dal rapporto con i grandi vecchi della letteratura, personalità monumentali che mi hanno insegnato molto: io provenivo dai libri di Diritto internazionale, non avevo fatto studi letterari. Personaggi come Gadda, uomo difficile e solitario, l’unico verso il quale ho provato qualcosa di simile alla timidezza; o come Aldo Palazzeschi, un capolavoro di ironia; o come Giovanni Comisso, simbolo della libertà totale e dell’edonismo sorridente. Esempi indimenticabili come quello di Mario Praz, capace di intrecciare tanti fili, di occuparsi di letteratura e di pittura, di Laurence Olivier e di Merle Oberon, di musica ma anche di arredamento: “Ma come? Un cattedratico insigne che si occupa di comò?”, diceva qualcuno in un’epoca in cui l’università italiana era piena di eruditi specializzati che però non distinguevano il boogie woogie dal Rigoletto. È quell’intreccio di storie, di immagini, di suggestioni che ti fa pensare a un quadro mentre leggi un libro il cui ritmo ti ricorda la musica di uno spettacolo visto a Londra o a Broadway. Eravamo una generazione molto curiosa, molto sperimentale. Con Italo Calvino, con Pier Paolo Pasolini, con Giorgio Manganelli, Giovanni Testori, Ottiero Ottieri, Luigi Malerba e Raffaele La Capria si usciva quasi ogni sera. Eravamo poveri ma si andava moltissimo a teatro, al cinema. L’arte l’ho conosciuta andando a vedere le grandi mostre con critici come Cesare Brandi e Giuliano Briganti, facendo visita a Roberto Longhi nella sua casa fiorentina fra gli ulivi. Si parlava, si discuteva da Milano a Roma, dal bar Giamaica di Brera alla trattoria di Cesaretto di via della Croce, dal festival di Spoleto alla Biennale Musica di Venezia. Lì, ci si arrivava alla fine di settembre, dopo l’agosto in America o in Grecia, e con tutte le B: Luciano Berio, Cathy Berberian, Pierre Boulez, Sylvano Bussotti. Assistevamo alle prime esecuzioni assolute di opere musicali: capitava di ascoltare quella di un coetaneo come Berio o del vecchio Stravinskij oppure cose dei viennesi del Novecento mai sentite prima. A ripensarci, quel che era veramente divertente era il fatto che nessuno di noi era qualcuno. Nel gruppo c’erano Giovanni Urbani, Dudù La Capria, Franco Zeffirelli, Piero Tosi, Mario Missiroli, Sandro Viola, Mauro Bolognini. E poi le nostre inseparabili Franca Valeri e Adriana Asti che con Nora Ricci formavano un trio straordinario di spiritose. Che strano! Mai conosciuto un attore di sesso maschile con senso dell’umorismo. Non ne avevano né Romolo Valli né Giorgio De Lullo. E Luchino Visconti, poi, con i suoi amici e i suoi attori aveva il tono di un signorotto con i dipendenti. Anche Giorgio Strehler era così. Il concetto era: o aggettivi con i superlativi o non siamo più amici. D’altra parte, gli italiani non sono mai stati un popolo dotato di humour. Pur essendo degli sconosciuti, ognuno era già quello che sarebbe diventato. E non appena ci si conosceva, ci si riconosceva subito. Perché? Mah. Facevamo un sacco di colazioni, allora usava molto. E alle sette andavamo alla redazione del Mondo, che era il salotto culturale e con Mario Pannunzio, Sandro De Feo e Nicola Chiaromonte sceglievamo un teatro, e dopo: a via Veneto. Quando Federico Fellini cominciò a girare La dolce vita ogni sera arrivava il suo segretario a dirci che il maestro ci pregava di andare sul set a impersonare noi stessi. E noi, ogni sera: mai. Figuriamoci se avevamo voglia di passare la notte ad aspettare il ciak del maestro e far poi magari una figura ridicola». «Oggi è il nome stesso di intellettuale che lascia perplesso, mentre il ruolo di un medico è fare bene il medico, il ruolo di un intellettuale è parlare del ruolo di intellettuale. Il mio ruolo è scrivere libri».
• Come giornalista iniziò al Giorno: «Avevo legato molto con Paolo Murialdi, il caporedattore, ma non con Giorgio Bocca, che credo mi considerasse frivolo, e neppure con il direttore Italo Pietra. Era stato compagno di università di mia madre e di fronte ai redattori allibiti, scherzando ma non troppo, mi diceva: “Se usi troppe parole straniere e troppe citazioni, dico alla mia amica Gina che ti prenda a sberle!”. Al Corriere mi portò Alfio Russo, che mi affidava elzeviri e brevi corsivi, lunghi mezza matita. Per prima cosa Giovanni Spadolini mi informò che erano aboliti. Quanto agli elzeviri, li avrebbero scritti solo accademici della Crusca». 
• Il pianista Vladimir Horowitz riconobbe al fiuto che adoperava come dopobarba Knize 10. 
• Non è mai stato in Sardegna (tranne una volta a Cagliari per andare all’Opera). 
• Stando a quanto comunicato dalla famiglia, è morto «serenamente» dopo una lunga malattia.
• Fratelli d’Italia «Non per incertezze ma per pudore ortografico Alberto Arbasino ha adottato diverse soluzioni nelle tre edizioni principali del suo Fratelli d’Italia: i “v*ff*nc*l*” sperimentalisti e verbovisivi dell’edizione Feltrinelli del 1963 nell’Einaudi del 1976 sono diventati più regolari “vaffanculo”, per ritrasformarsi in “vaffa” nell’Adelphi del 1993. Una vera e propria trasformazione: se v*ff*nc*l* era la sigla crittografica dell’insulto, e vaffanculo era l’insulto in sé, vaffa è come se fosse non l’insulto ma il suo nome, la sua allusione. Lo stesso Arbasino nell’edizione 1993 del romanzo ammette che la “magica potenza del vaffanculo” si sprigiona soprattutto nel discorso orale, e al cinema, mentre “sulla pagina è brutto”» (Stefano Bartezzaghi). 
• L’edizione del 1993 partecipò al Campiello, entrando in finale e arrivando ultimo. 
• Politica Nell’83 fu eletto alla Camera nelle liste repubblicane, e fino all’87 fu tra i deputati più presenti: «Legai molto con i miei vicini in commissione: Adolfo Sarti, di Cuneo, ministro importante e uomo coltissimo, e Michele Zolla, che poi lavorò al Quirinale con Oscar Luigi Scalfaro. Di fronte c’era Natalia Ginzburg, che smistava tutte le carte a me: “Fai tu tutto il turismo e spettacolo...”. Detestavo il Transatlantico, i divani, i baci e abbracci tra panzoni, le passeggiate sottobraccio alla buvette. Con Sarti e Zolla ci facevamo il caffè alla macchinetta. Nilde Iotti era scrupolosissima: ascoltava tutti, anche gli ostruzionisti, senza farsi mai sostituire; contava i minuti, al massimo 45, e al quarantaseiesimo scampanellava. Una vera preside». 
• Frasi «Quello che ho da dire oggi preferisco dirlo in tante letterine ai giornali». 
• «Due cose ho sempre bandito dalla scrittura, perché non mi piacciono. E in generale non piacevano quarant’anni fa: la vita in famiglia e tutte quelle citazioni su una cosa che ha detto la mamma o la zia. Oggi vedo un’infinità di libri che non parlano d’altro, e un’infinità di scrittori che non possono attaccare un discorso senza citare una cosa importante detta una volta dalla nonna. A casa avrei materiali per una saga famigliare di quattro generazioni; solo che non mi attira per nulla scriverla» (nel 2007). 
• «All’inferno ci va chi ci crede»
[Giorgio Dell’Arti e Massimo Parrini, Catalogo dei Viventi 2009, Marsilio, 2008].