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 2020  marzo 24 Martedì calendario

La lotta di Pechino per scrivere la storia del virus

L’epidemia partita in Cina, diventata pandemia, ha sprofondato il mondo in una guerra totale contro il coronavirus. Servirebbe una grande coalizione scientifica, medica, morale. Ma Pechino e Washington sono impegnate in una battaglia sulla responsabilità dell’epidemia. Il veicolo principale dei colpi sotto la cintura tra le due superpotenze è Twitter. «Virus cinese», ripete con calcolo politico Donald Trump; la propaganda del Partito-Stato comunista ha rilanciato invece assurde teorie del complotto che indicano i soldati americani arrivati a Wuhan in ottobre per i Mondiali militari come i primi portatori dell’infezione. La decifrazione del codice genetico del Covid-19 ha smontato la voce irresponsabile. Ma ora anche l’Italia rischia di diventare terreno di scontro. 
Il Global Times, giornale affiliato al Quotidiano del Popolo di Pechino, ha rilanciato sui social network un capoverso di un servizio della National Public Radio Usa. Che in fondo citava un’osservazione del dottor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Bergamo. «I nostri medici di base ricordano di aver visto casi gravi e strani di polmonite tra i loro pazienti a dicembre e già a novembre. Questo significa che il virus circolava in Lombardia prima che fossimo al corrente di quanto stava succedendo in Cina».
Osserva David Rennie, capo dell’ufficio dell’Economist a Pechino: «Siamo di fronte a un caso tipico di disinformazione da parte del Partico comunista cinese. Citano una fonte occidentale per ottenere credibilità e la rilanciano fuori contesto. La frase del dottor Remuzzi si riferisce alla possibile individuazione temporale di casi in Italia, non al luogo di origine del Covid-19. L’obiettivo del Global Times è di seminare confusione».
Torniamo a Wuhan. A dicembre i medici locali si trovarono a fronteggiare «polmoniti misteriose». La maggior parte dei primi malati aveva avuto a che fare con il famigerato mercato della carne selvatica. Solo il 31 dicembre da Pechino comunicarono il pericolo all’Organizzazione mondiale della sanità. Wuhan è un grande snodo ferroviario e aereo della Cina: l’1 gennaio 175 mila persone partirono normalmente dalla metropoli di 11 milioni di abitanti. Poi cominciò l’esodo per le grandi vacanze del Capodanno lunare e nelle tre settimane prima del 23 gennaio, quando finalmente Wuhan fu sigillata, si sono mossi in 7 milioni, secondo calcoli statistici basati sugli anni precedenti.
Quanto ai mondiali militari di ottobre, bisogna ricordare che a Wuhan arrivarono 9 mila atleti e delegati internazionali. Ed è altamente probabile che diversi siano andati a vedere il mercato, attrazione esotica della città. Potrebbero essere tornati nei rispettivi Paesi portando inconsapevolmente il coronavirus. 
Ipotesi, speculazioni. Ma anche dichiarazioni e azioni: sabato Xi Jinping ha telefonato ai leader di Parigi, Berlino, Madrid e Belgrado. Ad Angela Merkel ha detto: «Se la Germania ha bisogno, la Cina è pronta ad aiutare, le crisi sanitarie sono sfide comuni per l’umanità, unità e cooperazione sono l’arma più potente». In Italia stiamo vedendo arrivare medici veterani dello Hubei, materiale sanitario cinese, donato o acquistato.
Il segretario generale comunista sta facendo quello che ci si aspetterebbe dal presidente degli Stati Uniti, quello che abbiamo visto fare per oltre un secolo dalla Casa Bianca, «leader del mondo libero» a partire dalla Prima guerra mondiale: coalizzare le forze democratiche, dare l’esempio di governance, mettere a disposizione della comunità internazionale la poderosa macchina industriale americana. Invece Donald Trump lascia campo libero a Xi Jinping, che ne potrebbe approfittare per guidare il nuovo ordine mondiale dopo la pandemia, inattesa Terza guerra mondiale destabilizzatrice.
E a Pechino ora che hanno quasi debellato l’epidemia, a costo di grandi sacrifici, stanno cercando di riscrivere la narrazione sulle origini. La storia la scrivono i vincitori.