Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2020
Lingotti più scarsi
L’oro ha ripreso slancio fino a sfiorare quota 1.560 dollari l’oncia grazie alla Fed, ma il ritorno d’interesse da parte degli investitori (ammesso che si confermi nei prossimi giorni) rischia di scontrarsi con una scarsità di metallo.
Il caos logistico provocato dalla pandemia di coronavirus aveva già ostacolato i rifornimenti. Ora anche le miniere cominciano a rallentare l’attività. Ma soprattutto è crollata la produzione di lingotti, in particolare di quelli che si fregiano del marchio London Good Delivery, adatti a finire nei forzieri delle banche centrali come riserve auree o ad essere custodite nei caveau come asset finanziario, spesso a fronte dell’emissione di Etf.
Tre delle maggiori raffinerie del mondo – in grado di lavorare ben 1.500 tonnellate di oro all’anno – hanno dovuto sospendere la produzione in Svizzera a causa delle misure anti contagio, che stanno diventando sempre più severe anche al di là delle Alpi. Si tratta degli impianti di Valcambi, Argor-Heraeus e Pamp, tutti situati nel Canton Ticino, a un passo dall’Italia, dove il Governo locale ha imposto una frenata delle attività produttive «non essenziali» analoga a quella in vigore nella Penisola.
Lo stop, almeno sulla carta, sarà di breve durata. Ma è chiaro che tutto dipenderà da come si evolve la diffusione del virus. Valcambi e Pamp per il momento hanno sospeso l’attività fino al 29 marzo, Argor-Heraeus si è data come scadenza il 5 aprile.
Anche le società minerarie hanno intanto cominciato a limitare l’attività per arginare i contagi, un fenomeno che ridurrà le forniture di concentrati, da cui si ricavano metalli. Un calo della produzione aurifera è già stato annunciato da Newmont e da Freeport McMoRan, che rallenterà anche la miniera d’oro gigante di Grasberg, in Indonesia, anche se per ora è soprattutto l’offerta di rame ad essere colpita: Bank of Nova Scotia stima che due settimane di chiusura di miniere in Cile e Perù faranno perdere 325mila tonnellate del metallo rosso.
La domanda, di qualsiasi materia prima, è comunque crollata. E nemmeno l’oro è al riparo dalla crisi. Il settore della gioielleria soffre, soprattutto in Asia. E l’appeal del metallo come bene rifugio sempre più spesso soccombe di fronte alla sete di liquidità e all’assillo dei margin call, che spingono a monetizzare qualsiasi asset:anche ieri le quotazioni del metallo avevano iniziato la giornata in ribasso, prima di balzare di oltre il 4% sull’onda della Fed.
L’interesse per barre e lingotti d’altra parte è vivo, almeno in Occidente. Ma procurarseli da qualche tempo è diventato difficile. In Europa, come già segnalato dal Sole 24 Ore, i tempi di attesa si sono spinti oltre quattro settimane a causa del rallentamento delle raffinerie svizzere, che per limitare i contagi avevano già ridotto la presenza di personale. «In tutto il mondo oggi è difficile trovare un commerciante di oro aperto e con scorte fisiche disponibili – denuncia Ross Norman, ceo di Sharp Pixley – La supply chain dell’oro è molto sottile e vulnerabile».
Ora nel Canton Ticino si è arrivati alla chiusura totale di raffinerie cruciali per i rifornimenti, in particolare quelli di lingotti Good Delivery, uno standard di qualità che la London Bullion Market Association (Lbma) riconosce solo a una settantina di impianti nel mondo. Il 90% dei lingotti “da investimento” arriva proprio dalla Svizzera, che resta un hub importante per il mercato aurifero anche per la forte presenza di banche e produttori di alta orologeria, oltre che per la prossimità ai distretti orafi del Nord Italia.
Si stima che dalla Confederazione elvetica transiti circa il 70% dell’oro raffinato di tutto il mondo. Ma il coronavirus si sta dimostrando un freno poderoso anche in questo settore. A febbraio le esportazioni di oro dalla Svizzera si erano già più che dimezzate rispetto al mese precedente, a 42,7 tonnellate. «Solo 2 tonnellate sono andate in Cina e appena 10 kg a Hong Kong», fa notare Commerzbank.A marzo l’export secondo la banca «si è probabilmente fermato del tutto».