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 2020  marzo 24 Martedì calendario

Intervista ad Angelo Borrelli

Due mesi sul fronte del virus. Angelo Borrelli apre il suo ufficio al primo piano del dipartimento di Via Vitorchiano. Appare stanco. La comunità Protezione civile ha appena conosciuto il Covid in casa: «Dodici dei miei sono stati contagiati», dice. «Io, vivaddio, sono negativo».
I vostri dati dicono che la crescita dei contagi rallenta, per il secondo giorno. I nuovi positivi, ieri, sono aumentati dell’8,1 per cento su domenica, mai così pochi dal 24 febbraio.
«Le misure di due settimane fa iniziano a sentirsi. Nelle prossime ore dovremmo vedere altri effetti, capiremo se davvero la curva della crescita si sta appiattendo. I numeri restano alti: 63 mila contagiati».
Sette giorni e supereremo i contagi della Cina, il Paese dove il problema coronavirus è nato.
«La proiezione matematica è quella, non me lo sarei mai aspettato».
Questo dato fa capire che, nella fase iniziale del contagio italiano, sono stati commessi alcuni errori.
«Il 31 gennaio questo governo ha dichiarato lo stato di emergenza e bloccato i voli da e per la Cina, mi sembra che abbiamo compreso subito che questa epidemia era una cosa seria ».
Evidentemente non è bastato. È pentito di non aver chiuso tutto subito?
«Come insegnano i protocolli di Protezione civile, l’intervento deve essere sempre proporzionato al rischio».
Il rischio, con i giorni, è diventato molto alto. In Lombardia ci sono stati ritardi e impreparazioni? I clinici hanno perso presto il controllo dei pazienti contagiati.
«Il numero dei casi lombardi è stato subito soverchiante, i medici si sono buttati nella cura e non hanno avuto più tempo di fare indagini. Fin dall’inizio, va detto, ci sono stati comportamenti pubblici che hanno alimentato il problema nazionale».
Ovvero?
«La comitiva del Lodigiano che il ventitré febbraio è andata a Ischia portando il contagio sull’isola. E i primi positivi a Palermo, con i ventinove bergamaschi in vacanza in Sicilia. Con un virus così rapido, gli atteggiamenti sociali sono stati decisivi».
È stato un errore autorizzare Atalanta-Valencia a San Siro?
Quarantaseimila spettatori, il 19 febbraio: l’Italia era già in allerta da tre settimane.
«Potenzialmente è stato un detonatore, ma lo possiamo dire ora, con il senno di poi».
Commissario, 63 mila contagiati contati in Italia. Quanti sono, in verità?
«Il rapporto di un malato certificato
ogni dieci non censiti è credibile».
Sono 600 mila, un numero impressionante. Di fronte a questo dato e alle difficoltà di controllo in Lombardia, ha senso offrire ogni sera alle 18 i numeri di positivi, nuovi positivi, deceduti e guariti?
«Mi sono posto anch’io il problema e ricevo molte mail che mi chiedono di fermarci. Possono essere dati imperfetti, ma dal primo giorno ho assicurato che avrei detto la verità, è un impegno che ho preso con il Paese. Se ora ci fermassimo ci accuserebbero di nascondere le cose. E poi eravamo in mano alle singole Regioni, ai numeri degli assessori alla Sanità. Nelle prime settimane è stato il caos. A fatica siamo riusciti a ricondurre i governatori alla ragione, adesso non possiamo fermare questo appuntamento nazionale».
Qual è il problema più grave, nel nostro Paese, in questo momento?
«Dovremmo poter comprare i ventilatori da terapia intensiva nei supermercati, le mascherine ad ogni angolo e invece stiamo faticando.
India, Russia, Romania, Turchia: hanno bloccato le esportazioni.
Vogliono essere pronti per i loro picchi. Siamo intervenuti con le ambasciate, ma temo che mascherine dall’estero non ne arriveranno più».
E quindi?
«Deve partire la produzione nazionale, prima possibile. L’Italia su certi beni così importanti, ora capiamo vitali, deve cambiare traiettoria, fare scorte, reinsediare filiere sul territorio. Altri Paesi hanno mantenuto questi presidi. Il mercato corre molto più veloce di noi. Penso alle casette per il terremoto, dovremmo tenerne nei magazzini in quantità abbondanti. Non è così».
Anche alla Protezione civile italiana sono state offerte mascherine a prezzi sestuplicati?
«Sì. Quando la richiesta è spropositata rifiuto l’ordine: non posso buttare i soldi dello Stato».
Ci spiega il mercato dei dispositivi di protezione?
«Broker internazionali, e senza scrupoli, si presentano agli amministratori delle aziende medicali con la valigetta dei contanti. Accaparrano e vanno a vendere allo Stato che offre di più.
Noi, per troppo tempo, ci siamo dovuti rivolgere alle strutture centralizzate degli acquisti pubblici, procedure lente».
È cambiato qualcosa nel corso dell’emergenza?
«Ora sono diventate legge tre norme, e in particolare l’articolo 71 che ci restituisce la possibilità di acquistare al di fuori del codice degli appalti.
Oggi, per questa emergenza, rispondiamo solo di fronte al dolo conclamato. Nei momenti speciali servono leggi speciali e qualsiasi dirigente non deve aver paura a mettere una firma. La Protezione civile ha bisogno di rapidità: non siamo burocrati, ma, come si diceva nel 1915, volontari del Regno che devono godere della fiducia dei governanti e della nazione. Sulle mascherine siamo arrivati tardi ».
La Protezione civile ai tempi del Berlusconi IV questa fiducia se l’è giocata. La cricca della Ferratella, i massaggi al Salaria Sport Village, i Mondiali di nuoto con le tangenti.
«In quei tempi io sono stato il ministro delle Finanze di Bertolaso, il mio insegnante, e ho gestito miliardi. Non sono mai andato in galera, credo di meritare la fiducia dei cittadini».
Non fu Bertolaso, manager capace, a portare il dipartimento in territori fuori rotta? Ad avviare la delegittimazione della struttura?
«La Protezione civile dà grande visibilità, quasi sempre positiva, e la politica tende ad appropriarsi dei risultati. Per guidarla bene ho imparato che non bisogna essere troppo ambiziosi. Dopo Bertolaso, e dopo Gabrielli, si è pensato di cancellare la Protezione. L’hanno depotenziata, oggi dovremmo tornare a rafforzarla».
Borrelli, sono sufficienti le risorse stanziate per l’emergenza Covid-19?
«I soldi ci sono, ci vuole libertà d’azione».
Con l’arrivo dell’estate, il 21 giugno, ci saremo lasciati alle spalle il coronavirus?
«Nessuno può ancora dirlo».