«Essere il contagiato-simbolo di una tragedia epocale, è un peso che mi tormenta. Da oggi posso invece diventare finalmente il punto di riferimento della resistenza all’epidemia, la prova che grazie ai medici guarire si può. Io però ho avuto fortuna.
Sono stato attaccato tra i primi dal virus, a Codogno e a Pavia ho contato subito sulle cure che mi hanno permesso di tornare a vivere. Così penso alle migliaia di persone che adesso faticano a trovare un letto in ospedale per farsi curare, a chi rimane senza ossigeno, a chi aspetta e ha paura di morire. Nelle corsie si sta combattendo una guerra: prego tutti in ginocchio di restare a casa, di allontanarsi dai propri cari e dagli amici. Nessuno può sapere se è stato contagiato, la prevenzione è indispensabile: se le distanze non vengono rispettate, medici e infermieri presto non riusciranno più ad aiutarci». Mattia ieri è tornato a casa. Dimesso dal policlinico San Matteo, dopo oltre un mese ha potuto riabbracciare la moglie Valentina, che tra pochi giorni darà alla luce la loro prima figlia.
Manager all’Unilever di Casalpusterlengo, 38 anni di Castiglione d’Adda, per tutti ha l’etichetta del «paziente 1».
Dal Lodigiano, il 20 febbraio, è stato lui a suonare la campana del coronavirus in Europa. «Negli ultimi giorni ho fatto quattro tamponi — dice — tutti negativi.
Presto potrò accarezzare la nostra bambina senza il timore di infettarla. Dire grazie ai medici per me non è una banalità».
A riportare Mattia dalla morte alla vita sono state le équipe di rianimatori e anestesisti di Francesco Mojoli e Giorgio Iotti.
La loro lotta è durata 18 giorni, spesso hanno temuto di non farcela. «Oggi — dice Mojoli — Mattia va a casa perché è una persona guarita e sana. Secondo gli scienziati cinesi raramente chi sconfigge il virus può tornare positivo. Quando è successo, le persone non si sono ammalate e non sono risultate contagiose».
L’ombra del dolore oscura anche questa felicità, tra le poche a dare coraggio all’Italia. Mentre era in terapia sub-intensiva Mattia ha saputo che suo papà Moreno, colpito dal Covid-19 assieme alla moglie, non ce l’ha fatta.
«Piangeva di gioia per la figlia — dice Mojoli — e di disperazione per il padre. Ma ha capito subito la fortuna di poter stare in una terapia intensiva, con il sostegno della ventilazione meccanica.
Questa rimane la cura fondamentale, che dà all’organismo il tempo di superare un’insufficienza respiratoria acuta».
Tra le fortune di Mattia, anche l’aver incontrato medici creativi e coraggiosi. A Codogno l’anestesista Annalisa Malara ha «pensato l’impossibile» scoprendo il primo italiano attaccato dal coronavirus. A Pavia, Francesco Mojoli ha corso il rischio di un trasporto in ambulanza per il paziente che tutti definivano «intrasportabile». Se Mattia c’è ancora, lo deve a loro e all’infettivologo Raffaele Bruno, primario del San Matteo.
«Appena uscito dal coma — dice Mattia — ho sognato di mangiare gli gnocchi promessi da mia moglie. Poi una pizza con gorgonzola e salamino piccante, più una birra. La vita è bella perché si alimenta di cose semplici».
Assieme al dottor Mojoli accetta poi di ricordare il suo calvario.
«Solo quando il 9 marzo mi è stato tolto il tubo dell’ossigeno dalla trachea — dice — ho saputo di essere sopravvissuto al coronavirus. Il 19 febbraio sono stato ricoverato dopo un’influenza diventata una normale polmonite. Allora nessuno avrebbe creduto ad un’ipotesi diversa». Dalla notte del 20, quasi un mese di blackout. «Gli ultimi tre giorni — dice Mattia — mi hanno alleggerito la sedazione. Non potevo parlare, ma ho ripreso a vedere. Attorno a me si muovevano persone vestite da astronauti. Non capivo cosa fosse successo e dove mi trovassi.
Essendo in un ospedale, ho pensato mi avessero portato a Lodi».
Per infermieri e medici dell’équipe di Mojoli, a Pavia i giorni critici sono stati i primi quindici. «Mattia era gravissimo — dice — anche se giovane, forte e atletico. Alcuni cluster famigliari si sono già registrati, quello di Mattia è esemplare e per questo stiamo studiando la predisposizione genetica. Più la risposta degli anticorpi è esagerata, più la malattia si rivela grave. A quel punto non c’è cocktail di farmaci che tenga: ti salva la ventilazione meccanica invasiva, con ossigeno fino al 100% a pressione positiva per tenere aperti anche gli alveoli periferici. In condizioni normali una persona respira ossigeno al 21%». Mattia è stato un battipista in tutto. «I medici — dice — hanno testato su di me anche i cicli di pronazione. Mi giravano su un fianco, poi a pancia in giù per riaprire i polmoni che altrimenti tendono a chiudersi. Vedere la forza e la gentilezza con cui tante persone mi stavano vicino come a un figlio, giorno e notte, bardate, sfinite e impacciate dalle protezioni, mi ha commosso». Essere un atleta è stata la sua ultima fortuna. «Il suo fisico ha resistito — dice Mojoli — dando tempo alla polmonite di risolversi e accelerando il recupero dall’edema infiammatorio diffuso. Casco Cpap e ossigeno-terapia lo hanno infine rimesso in piedi. Il nostro dramma oggi è l’incertezza di poter garantire a tutti le apparecchiature che hanno salvato quello che proprio voi avete definito “il paziente che non deve morire”». Mattia adesso pensa a come «andare avanti».
«Fare un racconto di questa esperienza — dice — è difficile.
Dopo il ricovero a Codogno, per 18 giorni, so solo quello che mi hanno raccontato. Vorrei ricordare solo la cosa più bella, che è anche la più semplice: l’attimo in cui ho ricominciato a respirare. Ho capito che vivere è respirare: sapere che molti in queste ore non possono essere aiutati a farlo, mi fa stare male».
Nel congedo, l’ultimo appello.
«Devo ancora riprendermi — dice Mattia — chiedo di essere lasciato tranquillo e di rispettare la privacy della mia famiglia. Ho bisogno di dimenticare un’esperienza tragica e di ritornare alla normalità. Anche se so che per molto tempo questa parola avrà un significato diverso».