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 2020  marzo 22 Domenica calendario

David Quammen aveva previsto tutto. Intervista

A chi gli chiede come abbia fatto a prevedere tutto questo quasi dieci anni fa, David Quammen risponde da alcune settimane sempre allo stesso modo: «Nessuna profezia, ho solo scritto quello che scienziati lungimiranti avevano preannunciato». Vale a dire l’epidemia più diffusa dell’ultimo mezzo secolo, la pandemia da coronavirus Sars-Cov-2 (Covid-19 è il termine che indica la malattia respiratoria) che sta riscrivendo priorità e agende del nostro mondo. Difficile dire se la risposta sia più logica o più allarmante.
Americano originario dell’Ohio, Quammen è un divulgatore e giornalista scientifico cui si devono una quindicina di libri e reportage, soprattutto per «National Geographic», meritevoli di tre National Magazine Award. Collabora con il «New York Times» e vive con la moglie Betsy a Bozeman, cittadina universitaria del Montana. Fa una vita piuttosto ritirata, ci tiene a precisare, e della sua infanzia ricorda più di tante altre un’immagine: quella dei bulldozer che rasero al suolo l’amata foresta di conifere accanto a casa. «Successe appena dopo la seconda guerra mondiale: bisognava fare spazio a strade, case, negozi, a una città in crescita. Per me quella scena fu determinante».
Quammen ha trascorso buona parte dei suoi 72 anni seguendo in giro per il mondo quelli che chiama «i cacciatori di virus». A loro, a chi spende la vita a studiare natura e diffusione dei patogeni, nel 2012 ha dedicato Spillover, il saggio narrativo portato in Italia da Adelphi (nel 2014) che ha descritto in dettaglio cause e modalità dell’emergenza sanitaria attuale. Il libro sta riscuotendo un meritato ritorno al successo dopo l’articolo di Paolo Giordano dedicato alla «Matematica del contagio», pubblicato il 25 febbraio sul «Corriere della Sera», e una serie di rilanci su programmi televisivi e siti di informazione pronti a citarlo come testimonianza privilegiata di qualcosa di noto ma clamorosamente sottovalutato. Un po’ come il protagonista della sua copertina, un grosso pipistrello fotografato da Tim Flach, una volpe volante delle Comore. Sotto, il titolo sembra cadergli dalle ali, ampie come una minaccia: Spillover. Nell’uso corrente in ecologia ed epidemiologia, il termine indica il momento in cui un patogeno passa da una specie ospite a un’altra, per esempio quando un virus animale diventa a trasmissione interumana. Lo spillover porta all’emergenza quando un patogeno che ha infettato qualche individuo di una nuova specie ospite trova condizioni favorevoli e si propaga tra i suoi membri. La cosiddetta «spagnola» del 1918 arriva da uno spillover, così come l’ebola e l’aids. O come tutti i tipi di influenza umana, compresi i coronavirus vecchi, il nuovo e i prossimi.
Esatto, i prossimi, perché la cosa più allarmante non è tanto che nel suo libro Quammen descriva la Terra come un pianeta denso di microscopiche minacce per l’uomo. È che lo spillover abbia i tratti di «una parola del futuro, destinata a diventare assai più comune nel corso di questo secolo».
Quammen, le pandemie sono dunque destinate a diventare più frequenti?
«Probabilmente sì: epidemie e pandemie continueranno a crescere, a meno che la minaccia non venga affrontata in maniera responsabile. Non parlo solo dell’attualità; mi riferisco a un approccio più a lungo termine, a misure in grado di identificare nuovi virus pericolosi, di mettere in guardia contro nuove invasioni, di preparare le risorse, le capacità umane per contenere e sconfiggere simili contaminazioni, prima che si trasformino in disastri».
Che cosa è successo? Perché il numero delle epidemie è cresciuto?
«Tutto ha un’origine: i nuovi virus diffusi nella popolazione umana provengono da animali selvatici. Gli ecosistemi terrestri ospitano numerose specie animali, ognuna delle quali è portatrice di patogeni unici e peculiari. Nel momento in cui si distruggono le foreste per ottenere legname o ricavare metalli, oppure si uccidono centinaia di specie per uso alimentare o per immetterle sul mercato, si espone il genere umano a tutti questi virus: offriamo cioè loro l’opportunità di trasferirsi dagli ospiti animali alla nostra specie. Negli ultimi decenni queste attività sono aumentate in maniera esponenziale; tutto ciò ha rotto l’equilibrio dell’ecosistema e interferito prepotentemente con quello della vita animale. Come se non bastasse, la popolazione umana è aumentata fino agli attuali 7,7 miliardi: è una polveriera se si considera anche la facilità di movimento di un mondo globalizzato. Tutti questi fattori hanno contribuito ad aumentare il rischio di frequenti spillover, ossia invasioni di nuovi virus nelle nostra società».
Che cosa sappiamo, oggi, del Sars-Cov-2 e della sua pericolosità?
«Si tratta di un virus molto pericoloso – come potete vedere soprattutto voi in Italia in questi giorni – e per motivi diversi: anzitutto perché riesce a diffondersi rapidamente fra gli esseri umani. È un virus invisibile, può essere trasmesso anche da persone asintomatiche che, ignare, rischiano di contagiarne decine di altre. In secondo luogo, ha un tasso di mortalità alto rispetto ad altri più comuni ma pericolosi, come l’influenza, per esempio. Infine, come tutti i coronavirus, si evolve con impressionante rapidità. Dieci anni fa, mentre stavo ancora scrivendo Spillover, alcuni dei più importanti esperti a livello mondiale mi hanno avvertito: occorre fare particolare attenzione a un nuovo virus che verrà generato da un animale, probabilmente un pipistrello, caratterizzato da un potenziale di evoluzione alto. Sembra l’identikit di questo coronavirus».

Che cos’ha di diverso questa pandemia di Sars-Cov-2 rispetto alle precedenti?
«Guardiamo all’influenza del 1918 o alla peste bubbonica del XIV secolo. Ecco, questa pandemia è unica per tre motivi: il primo è la dimensione dell’attuale popolazione mondiale. Il secondo è la crescente interconnessione fra gli uomini, che rende possibile una diffusione globale del virus in poco più di 16-18 ore. Il terzo elemento distintivo è che la scienza ha fatto passi da gigante. Mentre i primi due fattori sono pericolosi, il terzo ci dà speranza».
Quali sono, in questo momento, gli scenari peggiori che immagina?
«Da un lato c’è la possibilità che la pandemia peggiori, uccida molte persone e devasti l’economia. Dall’altro, se la situazione dovesse venire domata in tempi brevi e con relativamente poche vittime, è possibile che politici incapaci o persone ignoranti si convincano di avere contrastato un virus “di poco conto”, una situazione meno grave di quella prevista dagli scienziati. La seconda ipotesi potrebbe portare a una continua mancanza di prontezza nell’affrontare situazioni simili in futuro, crisi che, è bene ribadirlo, si ripeteranno di certo. Devo però riconoscere che oggi nessuno ha più il coraggio di negare la gravità di questa pandemia. Perfino il presidente Donald Trump, finora scettico, sta iniziando ad affrontarla in maniera seria».
Nel 2012 ha scritto che la successiva grande epidemia, la «Next Big One», sarebbe stata causata da un virus zoonotico, proveniente da un animale selvatico – verosimilmente un pipistrello – e probabilmente dopo un processo di amplificazione in un altro tipo di animale. Ha aggiunto che il primo contagio avrebbe potuto avvenire in un «wet market» cinese e ha concluso dicendo che il nuovo virus si sarebbe rivelato pericoloso se i contagiati l’avessero diffuso prima di accusare i sintomi. Le ha centrate tutte, come ha fatto?
«Ho anche scritto che i coronavirus sarebbero stati la causa più probabile delle future pandemie. Quello che ho spiegato nel libro, però, è il risultato delle previsioni e degli avvertimenti di scienziati qualificati e lungimiranti. Mi sono limitato ad ascoltarli, ad accompagnarli in giro per il mondo per visitare grotte e foreste abitate da colonie di pipistrelli. Alla fine ho cercato di raccontare il loro coraggiosissimo lavoro, riassumendone i moniti nella speranza di aiutare i lettori».
Le indicazioni sono state pressoché ignorate, però.
«È un paradosso. Quando si scatenano epidemie o pandemie, enormi quantità di denaro, lavoro, risorse vengono investite nella sanità, nel controllo e nel contenimento dell’infezione. Una volta risolta la crisi, però, quando il virus è sotto controllo, il denaro e il lavoro investiti nella battaglia tendono a scomparire. Il risultato di questo atteggiamento si traduce nella mancanza di preparazione tra scienziati e ricercatori, nella carenza di posti letto negli ospedali, nella totale assenza di prontezza dei sistemi sanitari».
Perché i virus riescono a evolvere così velocemente?
«È la natura del loro genoma, un Rna monofilamento. Quando il virus si moltiplica all’interno di una cellula infettata, questo genera degli errori, una mutazione genetica casuale tra le varie particelle. La mutazione genetica casuale è alla base dell’evoluzione fondata sulla selezione naturale: le variazioni permettono alle particelle dei virus di reagire in maniera diversa alle circostanze presenti nell’ambiente – ambiente come il corpo di un pipistrello, o ambiente come il corpo umano – e le particelle virali più forti sopravvivono. Un po’ grossolanamente è la teoria di Darwin. Virus con genomi Rna a doppio filamento, o genomi Dna a doppia elica non commettono così tanti errori durante la loro moltiplicazione: la loro evoluzione è dunque più lenta».

Lei ha dedicato buona parte della sua vita a questi argomenti. Che cosa la affascina delle epidemie? E dei virus?
«In realtà mi sono occupato soprattutto di biologia evolutiva e di ecologia. La ragione è semplice: sono argomenti fondamentali per comprendere la vita sul pianeta. Il lavoro che ha portato alla pubblicazione di Spillover era un progetto sull’ecologia e l’evoluzione dei virus pericolosi durato cinque anni. Le epidemie e le pandemie sono alla base dell’ecologia e dell’evoluzione. Per questo l’argomento mi intriga, perché ha tutto: è carico di mistero e di scoperte; esprime la scienza ai massimi livelli; racconta tanto, tantissimo coraggio umano».
In «Spillover» scrive che «siamo una specie animale legata in modo indissolubile alle altre, nelle nostre origini, nell’evoluzione, nella salute e nella malattia». Il virus lo sta tragicamente confermando. Eppure più che una risposta univoca, sembra che i governi stiano trovando, anche nell’emergenza, ulteriori elementi di contrasto. Perché?
«Alcuni capi di Stato, compreso Trump, sembrano credere che costruire un muro per limitare gli spostamenti sia sufficiente per isolare virus come il Sars-Cov-2. Forse l’approccio poteva essere valido all’inizio, quando l’epidemia era circoscritta in Cina. Oggi non è più così: ridurre o impedire gli spostamenti si rivelerà di aiuto, ma le linee di sicurezza non coincidono con i confini geografici o politici. Il virus è già penetrato negli Stati Uniti e prima ha colpito l’Italia in modo violentissimo; sapete perché? Per puro caso. Quello di cui abbiamo bisogno ora è uno sforzo rigoroso, una cooperazione forte che limiti l’ulteriore diffusione del virus tra le comunità, riduca la curva dei contagi e permetta di curare al meglio i malati. Non ci sono altre opzioni».
Però gli approcci con cui si sta affrontando la pandemia sono diversi: si va dalle soluzioni «tecnologiche» della Sud Corea alle «chiusure» progressive di tanti Paesi europei, Italia in testa.
«In quanto a capacità di controllare l’impatto del virus sul territorio, la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore sembrano avere attuato strategie di gran lunga migliori rispetto a quelle di molti altri. I loro approcci, però, non sono stati tutti uguali: alcuni hanno chiuso le scuole e altri no, alcuni hanno limitato la circolazione e altri l’hanno monitorata. Per questo sarà fondamentale, a crisi conclusa, studiare cosa e come abbia funzionato con particolare efficacia in questi Paesi».

Pochi giorni fa il «Guardian» ha pubblicato un documento riservato del Public Health England secondo il quale la crisi durerà fino alla primavera 2021. Quando tutto questo finirà davvero?
«Nessuno lo sa: non siamo in grado di conoscere in anticipo cosa faranno le persone né come si comporterà il virus. Dobbiamo essere pronti al peggio e sperare per il meglio. È obbligatorio essere forti, disciplinati, pazienti. E generosi verso gli altri».
Che cosa sta insegnandoci, o che cosa dovrebbe insegnarci, come specie, come esseri umani, questa pandemia?
«Nessun uomo è un’isola; nessuna donna è un’isola; nessun pipistrello, pangolino, zibetto o gorilla lo è. Siamo tutti connessi dalla storia evolutiva e dal nostro dover coesistere su un pianeta così piccolo. Condividiamo spazi, condividiamo risorse e a volte, può capitare, condividiamo virus. Tuttavia, noi esseri umani siamo fortunati, poiché dominiamo il pianeta e possiamo contare su un’intelligenza e una capacità di adattamento speciali. Credo sia giunto il momento di usare queste capacità non solo per creare con la massima urgenza test per il coronavirus, medicine antivirali, vaccini per scongiurare la diffusione del contagio. È giunto il momento di ritrovare l’umiltà e capire come trattare con il massimo rispetto il resto del mondo vivente».