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 2020  marzo 23 Lunedì calendario

Un vecchio articolo di Gianni Mura su George Best

Quando uno si chiama Best è già segnato, nella vita. E curiosamente il suo nome contiene l’inizio e la fine della città dove è nato: Belfast. Il vegetale umano che ha finito di morire ieri, è stato un calciatore-simbolo, un grande calciatore, più amato forse di quanto meritasse, calcisticamente parlando. In quel Manchester Bobby Charlton e Law pesavano più di lui, ma colpivano meno la fantasia. Bisogna capire prima cos’è la fantasia, poi ripensare a quel numeretto (68, l’anno) e a tutto quello che si agitava quando Best vinse il Pallone d’oro. Per il calcio inglese, che pure di ali ne aveva fabbricate, la fantasia era Best. A noi italiani sembrava un parente nordico di Gigi Meroni, con un pizzico di velocità in più. Aveva gli stessi capelli lunghi, lo stesso numero 7 sulla schiena, la stessa barba lunga di tre-quattro giorni e una grande predisposizione al dribbling. E il messaggio che trasmetteva agli spettatori era identico: va bene tutto, ma siamo qui per divertirci. Lo chiamavano il quinto dei Beatles. Coincidenza, prima di Ringo Starr, il batterista del complesso si chiamava proprio Best, Pete Best.
George aveva un sorriso abbagliante e l’espressione un po’ ribalda del primo Sean Connery. Bob Geldof ha detto di lui che è stato la prima pop star del calcio, ed è vero. Mai viste negli stadi inglesi tante donne come quando giocava Best. Che non era solo pop star ma anche sex symbol, bello e forse un po’ dannato, come gli avventori delle taverne di Marlowe. Bello e certamente condannato, ieri c’è stato solo il fischio finale. Best non ha mai cercato di sottrarsi al suo destino: morire alcolizzato e povero lui che da una famiglia povera era nato. Se ne vantava, con battute rimaste famose: «Ho speso una fortuna in donne, alcol e macchine. Il resto l’ho sperperato». Come dire che i primi erano soldi spesi bene, investiti razionalmente. Donne a centinaia, tra cui due Miss Universo, e bottiglie a migliaia. L’alcol è una brutta bestia, sembra che dia forza e invece è il contrario. Il calcio inglese conosce questa pericolosa deriva da sbronza. Prima virile, col gruppo, poi da soli, e poi da disperati. C’è una bella autobiografia di Tony Adams, sull’argomento. C’è la vita di Gascoigne. Altrove ci si distrugge con la droga. È un processo più corto. Qui stiamo parlando, con tristezza, di un calciatore famoso morto a 59 anni divorato dall’alcol. Il simbolo più significativo del suo passato, il Pallone d’oro, l’aveva messo all’asta da tempo, per pagare debiti e altre bottiglie. Diceva che era più bello il calcio ai suoi tempi, che c’era più fantasia, ancora questa parola che ritorna. Ed è in virtù di questa parola che oggi preferisco rivedere Best in azione, lui giovane e bello, non la cosa senza più voce, gli occhi già spenti, che ci portavano in casa le ultime fotografie. Perché quella di Best è stata una morte in pubblico: di caduta in caduta, di disintossicazione in disintossicazione, di appello in appello, di ricaduta in ricaduta. Col tipico moralismo inglese: guardatelo, è un barbone. Aveva tutto e non ha più nulla. Le più belle donne del mondo, e adesso nemmeno una carezza può fare, da come gli tremano le mani. Best è morto a 59 anni ma la sua storia sportiva si ferma a 28. Il Manchester lo dà per irrecuperabile, e gli restano solo squadrette (il Cork, lo Stockport) che in cambio del nome e dell’aureola di gloria lo lasciano libero di fare la sua vita. Che è sempre stata quella della cicala, mai della formica. Mentre si ammucchiano le magliette rosse all’Old Trafford, sotto la statua di Matt Busby, penso che Best, come Meroni, fosse un fiore dopo un disastro aereo, Superga e Monaco. Nel loro essere eroi della fantasia c’era questa saldatura a un lutto, e insieme una musica di speranza in cammino. Più vaghe per Meroni, e interrotte molto presto. Più tangibili per Best, il 4-1 al Benfica, la Coppa dei Campioni. Best quattordicenne fu scartato a un provino dal Glentoran perché troppo piccolo e leggero. A quindici anni arrivo al Manchester, scappò dopo un solo giorno e Busby lo andò a riprendere a Belfast. Non era troppo piccolo e leggero, o non più. Era troppo assetato di volo per non bruciarsi, lui ala, le ali. Che noi chiamiamo questa spinta libertà o autodistruzione ha poca importanza. Anzi, nessuna, per George Best, mani bucate e fegato spappolato. Guardiamolo fintare sulla sinistra e saltare l’avversario sulla destra. Il campo è di un verde magico, la maglia rossa ha il numero 7. In qualche pub canteranno prima o poi una ballata triste (anche più triste di “Danny Boy”) e l’inizio sarà più o meno questo.
(La Repubblica, 26 novembre 2005)