la Repubblica, 23 marzo 2020
La separazione dei Beatles, 50 anni fa
Assenti ma sempre incredibilmente presenti. I cinquant’anni passati senza i Beatles sono il tempo della più lunga celebrazione mai consumata dalla cultura pop. Ma è anche vero che lo scioglimento della band fu molto più che la fine di un gruppo, fu un trauma generazionale, un segnalibro del tempo, fu di fatto la fine simbolica degli anni Sessanta. Insomma c’è un prima e un dopo quel fatidico 10 aprile del 1970 in cui Paul McCartney annunciò di non fare più parte della band più famosa del mondo. Fu un annuncio brutale, inaspettato anche dagli altri componenti della band, da Lennon in particolare il quale, in quanto fondatore, avrebbe preteso il diritto di essere lui a decretare la fine. Ma le parole di Paul furono intese per quello che realmente significavano. I Beatles non c’erano più, anche se un mese dopo, l’8 maggio, fu pubblicato Let it be, l’ultimo e controverso disco firmato da tutti e quattro, sebbene registrato a inizio 1969 e poi messo da parte. Ai Beatles non mancava certo il tempismo, tutta la loro storia era un abbraccio vertiginoso coi tempi che cambiavano, e lo fu anche quando decisero di farla finita nell’anno che fece da spartiacque tra il sogno dorato e immaginifico degli anni Sessanta e le incombenti lacerazioni degli anni Settanta.
In quell’anno uscì il film di Woodstock, con le immagini dei giorni di “pace amore e musica”, l’ultima celebrazione collettiva del culto hippie, con quello sconvolgente finale in cui Jimi Hendrix faceva a pezzi l’inno americano trasformandolo nel suono di un bombardamento in Vietnam. Era l’anno in cui la mitologia del raduno rock raggiunse l’apice anche in Europa coi 500.000 giovani che travolsero l’Isola di Wight e dove lo stesso Hendrix andò a esibirsi per l’ultima volta. Morì l’8 settembre, a 27 anni, la stessa età di McCartney, e anche la sua morte fu un sinistro segnale di un’era che tramontava. A morire davvero nel 1970 fu la parte più ingenua della rivoluzione giovanile, quella che aveva infiammato le università americane, quella che aveva fatto credere ai ragazzi di tutto il mondo che davvero il mondo potesse essere cambiato con dei fiori messi nelle bocche dei cannoni, con la liberazione sessuale, con l’abolizione degli egoismi e della sopraffazione. Il rock si era parecchio inacidito, erano partite nuove storie, nuovi percorsi che porteranno altrove: i Pink Floyd avevano iniziato a costruire mondi paralleli, totalmente distanti dalla realtà, e quello fu l’anno di Atom heart mother; i Led Zeppelin stavano battendo una strada di inaudita rudezza e nel 1970 pubblicarono un pezzo come Immigrant song che sembrava evocare il furore deluso degli dei pagani; i Doors avevano trasformato l’idea del concerto in un diabolico ed estremo rito poetico. In Europa i ragazzi avevano imboccato una strada completamente diversa, la visione politica si radicalizzava sempre di più. In Italia, a fianco delle manifestazioni di piazza c’erano le canzoni politiche di Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini e Ivan Della Mea, ma anche la canzone d’autore registrava il cambiamento. Nel 1970 uscirono tre dischi molto importanti: La buona novella di Fabrizio De André, L’isola non trovata di Francesco Guccini e Emozioni di Lucio Battisti, mentre nelle zone più popolari Adriano Celentano maramaldeggiava, provocando gli operai dell’autunno caldo con Chi non lavora non fa l’amore. D’altra parte anche le canzonette riuscivano involontariamente ad assumere talvolta l’arguzia della metafora, come successe alla innocua e giuliva Fin che la barca va, presa molto spesso a specchio di comportamenti politici.
E i Beatles? Avevano chiuso come band ma erano scatenati a livello individuale. George Harrison aveva accumulato talmente tante canzoni da pubblicare un disco triplo, fatalisticamente intitolato All things must pass, frase di ispirazione orientale ma che ben si adattava ironicamente a quello che stava accadendo. Paul l’annuncio della fine lo aveva lanciato in concomitanza con il suo disco solista. John pubblicò John Lennon/Plastic Ono Band, il suo capolavoro assoluto con pezzi dissacranti e gloriosi in cui metteva in discussione gli anni 60, i miti del tempo e perfino i Beatles, prendendo la rincorsa per arrivare l’anno seguente a incidere Imagine. Anche Ringo si lanciò allegramente in una inaspettata carriera solista. Si comprese mese dopo mese che effettivamente i quattro avevano esaurito la loro carica collettiva, che avevano bisogno di spazi individuali, ma a quel tempo le notizie giravano poco, e in ritardo, e per questo quando arrivò l’annuncio di Paul fu come uno schiaffo inatteso. Pochi mesi prima era uscito Abbey road, disco di incredibile bellezza, e tutto sembrava meno che un album realizzato da un gruppo allo stremo delle risorse creative. Lo stesso Let it be che uscì subito dopo non era poi così malriuscito. Sembrava davvero che fosse troppo presto per chiudere. Ma il fatto è che i Beatles fin dal loro primo apparire avevano dimostrato di avere un appuntamento con la storia. C’era un’era da chiudere e ad annunciarlo non potevano che essere loro.