la Repubblica, 23 marzo 2020
I numeri sugli anziani in Italia
«Ma lei lo sa cos’è la fragilità?»: Roberto Bernabei, lo specialista di geriatria del Comitato tecnico scientifico del governo per Covid- 19, non ha voglia di girarci attorno. Noi contiamo più morti che altrove perché, dice il geriatra: «Il virus sbriciola corpi resi fragili da due o tre malattie». La metà degli italiani uccisi ha incontrato Covid quando soffriva già di altre tre patologie (tra ipertensione, insufficienza respiratoria o renale, diabete, cardiopatie, cancro); il 26,6% da due, e solo l’1,2% poteva considerarsi sano. È un fatto che «l’età media dei contagiati nell’Hubei è di 46 anni – riferisce Bernabei – in Italia è di 63 anni. Malati più giovani che hanno affrontato meglio il virus». Ma non basta chiamare in causa l’Italia più vecchia del mondo, perché se nel nostro Paese la vita media è la più alta d’Europa (83,6 anni) non lo è la vita sana, che si ferma a 61 anni.
Insomma, i nostri over 65 sono più malmessi di quelli delle nazioni con cui amiamo confrontarci: basti pensare che in Svezia la vita libera da malattie è di 11 anni superiore alla nostra. E Bernabei lo conferma: «Viviamo più a lungo ma con più anni di disabilità». Soffrendo di molte malattie che mettono un malato in ginocchio, lo trasformano nel “corpo fragile” che Covid-19 sbriciola. Perché? E perché il record-Lombardia?
A oggi la letalità di questa infezione è del 5,8% nell’Hubei, del 9 in Italia, del 12,1 in Lombardia. Il “perché?” ha tante risposte, parziali; si chiamano in causa i tamponi, il conteggio dei contagiati, e su quello dei morti (“da coronavirus”, come facciamo noi o “con coronavirus”, come fanno Francia e Germania?). Ma in primo piano oggi ci sono più che i “tassi” e le “curve” degli statistici, le storie concrete delle persone, e quello che è stato, o non è stato, fatto per proteggerli ben prima che Covid colpisse duro. Cosa ci ha reso facile terreno di conquista per il virus?
Per primi i numeri: un quarto degli italiani ha più di 65 anni, il 40% della popolazione soffre di una qualche malattia cronica. Sono 24 milioni di cui 12,5 ne hanno più di una: al diabete può associarsi l’ipertensione, ad esempio, alle malattie respiratorie quelle del cuore, e così via.
Allora ecco lo scenario: milioni di ultra 65enni infragiliti dalle malattie del benessere si trovano davanti un virus sconosciuto; lo combattono e molti ce la fanno. Lo scaglione dei morti corrisponde, però, all’avanzare dell’età e della fragilità: la stragrande maggioranza ha più di 70 anni. E, osserva Bernabei: «Fino ai 70 anni solo il 7% della popolazione ha delle disabilità. La maggior parte di noi (io ho 68 anni) ha diverse patologie ma continua a fare la vita di un cinquantenne, con i farmaci e gli stili di vita corretti. Poi però le cose cambiano. E se arriva un virus come questo sono guai».
Una popolazione di over 65 acciaccata dalle malattie croniche rappresenta un costo enorme per i servizi sanitari: oggi l’Italia spende su questo comparto 66,7 miliardi all’anno. Per questo un servizio sanitario universale e virtualmente perfetto come il nostro, ma con tinuamente sottoposto a tagli e revisioni di spesa, ha mancato di far fronte. Eppure, il pericolo è squadernato da anni: tanto che già nel 2016 era pronto un Piano nazionale della cronicità che impegnava le regioni a fare qualcosa per ipertesi, diabetici, ammalati del cuore, dei bronchi, dei polmoni, per coloro che sono sopravvissuti ai tumori col carico di fragilità che spesso questo comporta. Un piano che non ha avuto nessun finanziamento ad hoc, e che è restato lettera morta per anni: stando a un rapporto di Cittadinanzattiva, l’estate scorsa erano solo 15 le regioni che lo avevano recepito. Tra queste la Lombardia, che però ne ha disegnato uno tutto suo, del tutto fallimentare, stando agli osservatori.
L’allora giunta Maroni ha infatti scritto un Piano farraginoso che ha lo scopo di mettere sotto controllo i costi assicurando uno standard minimo di prestazioni. Ai cittadini è stato chiesto di aderire, ma il 90% dei lombardi ha detto no. Forse allora oggi non ci dovremmo stupire quando leggiamo che a Bergamo ha accettato il piano della regione il 7,9% dei malati cronici, a Milano il 3,8, a Pavia il 2,2, a Cremona l’8,1. Sono dati rilevati l’estate scorsa, qualche mese prima che le persone incontrassero Covid. Tutto il carico delle malattie croniche pesa sui medici di base, che hanno di certo fatto al meglio il loro lavoro. Ma: al meglio, appunto. I piani per la cronicità sarebbero stati una risposta, tardiva, alla vera defaillance del sistema sanitario di oggi. Vittima di tagli: ai posti letto, alle prestazioni, ai farmaci; senza alcunché che riempia quel vuoto: nessuna assistenza domiciliare, nessuna prevenzione, nessun presidio che potesse aiutare i malati nella loro vita quotidiana. Poi, Covid. Ed è stata la tragedia.