La Stampa, 23 marzo 2020
Da Giolitti a Conte, i nostri leader nell’ora più buia
«Ho scelto di rendere tutti voi partecipi della sfida che siamo chiamati ad affrontare… È la crisi più difficile che il Paese sta vivendo dal secondo dopoguerra»: così, sabato sera, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha esortato gli italiani a condividere le ultime misure per affrontare l’emergenza sanitaria. Con il medesimo obiettivo, il premier aveva di recente ripescato le parole pronunciate nel 1940 da Winston Churchill alla Camera dei Comuni, davanti al pericolo di invasione del Regno Unito da parte della Germania nazista («Questa è l’ora più buia… ma ce la faremo!»). Ancora e sempre Conte, per incoraggiare «ognuno a fare la propria parte», aveva ricordato che siamo una «comunità di individui», riprendendo il sociologo tedesco Norbert Elias. Discorsi e affermazioni enunciati tutti con eloquio cauto e forbito, stilisticamente inoppugnabile. Sulla scia di una tradizione oratoria nazionale a cui intellettuali e politici hanno dato fiato nel ’900 nei periodi di grave emergenza, riuscendo a far tagliare ai connazionali - che Giacomo Leopardi definiva «cinici» per il loro individualismo sfrenato - importanti traguardi d’impegno comune e di altruismo.
«Resistere! Resistere!»
L’invito più ricco di pathos a non demoralizzarsi ma a reagire tutti insieme è quello scandito con voce commossa il 22 dicembre 1917 davanti alle Camere dal presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, dopo la disfatta di Caporetto, quando i militari al fronte e l’Italia intera sembravano incapaci di rialzare la testa: «La voce dei morti e la volontà dei vivi, il senso dell’onore e la ragione dell’utilità, concordemente, solennemente ci rivolgono adunque un ammonimento solo, ci additano una sola via di salvezza: resistere! resistere! resistere!». Orlando risollevò il morale e, al termine della Prima guerra mondiale, venne ribattezzato «il presidente della Vittoria»: la sua dissertazione ha attraversato i decenni ed è stata utilizzata persino nella prolusione del 2002 del procuratore generale di Milano Francesco Saverio Borrelli per incoraggiare i giudici alla difesa della loro indipendenza.
Meno nota è invece la concione pronunciata in Parlamento da Giovanni Giolitti il 4 febbraio 1901, quando erano in atto scioperi e rivolte per il rincaro dei prezzi. Manifestazioni soffocate nel sangue di decine di morti dalla repressione governativa. «Il moto ascendente delle classi popolari si accelera ogni giorno di più», così Giolitti bacchettò i colleghi più conservatori, «ed è un moto invincibile perché comune a tutti i Paesi civili e poggiato sul principio dell’eguaglianza tra gli uomini. Nessuno si può illudere di poter impedire che le classi popolari conquistino la loro parte di influenza economica e di influenza politica». Le parole forti e convincenti di Giolitti, il primo politico liberale a comprendere la necessità dell’ascesa sociale dei lavoratori, furono foriere di un patto di pace e di collaborazione.
La straordinaria allocuzione tenuta da Alcide De Gasperi il 10 agosto 1946, alla Conferenza di pace di Parigi, fece rivivere nei connazionali l’orgoglio di essere italiani. Il presidente del Consiglio con intenso eloquio separò le colpe del fascismo dalla responsabilità morale del popolo italiano, dando rilievo alla lotta partigiana e reclamando giustizia. «Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me. Ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano, ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universalistiche del cristianesimo e le speranze internazionalistiche dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate».
«Armate il vostro animo»
In questi giorni in cui l’Europa si trova a fronteggiare divisa il dilagare della pandemia, sono più attuali che mai le fustigazioni degli egoismi nazionali di Luigi Einaudi: ce lo ricordano gli studiosi Valeria Della Valle e Giuseppe Patota in Le parole valgono (Treccani, pp. 184, € 15) in cui sottolineano che l’efficacia politica di un discorso nasce anche dalla competenza stilistica e linguistica dell’oratore.
Einaudi, deputato all’Assemblea Costituente, il 29 luglio 1947 esibì la sua indignazione attraverso parole straordinarie: «Se noi non sapremo farci portatori di un ideale umano e moderno nell’Europa d’oggi smarrita sulla via da percorrere, noi siamo perduti e con noi è perduta l’Europa». Indignato si scagliò contro il rinascente «mito della sovranità assoluta dei popoli» e contro gli Stati europei «capaci di dar vita alle barriere doganali in un’Europa in cui si osservano rabbiosi ritorni a pestiferi miti nazionalistici».
Giovane tra i giovani nonostante l’età, l’ex capo partigiano Sandro Pertini, divenuto Presidente della Repubblica sfidò il terrorismo nel discorso di fine anno 1978, appellandosi ai ventenni: «I giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo. Giovani, ascoltatemi vi prego: non armate la vostra mano. Armate il vostro animo… fate che sia illuminato dalla luce di una grande e nobile idea».
L’Inno di Mameli
Oggi noi smemorati non la ricordiamo, ma in queste settimane è presente più che mai la campagna avviata da Carlo Azeglio Ciampi nel 1999, quando fu eletto al Quirinale. Il Presidente scelse di rivalutare la parola «patria», un concetto fino a quel momento inviso a gran parte della popolazione per via dell’uso e dell’abuso che ne aveva fatto il fascismo. Si spese in moltissimi interventi, percorrendo la Penisola per convincere comuni e province a sventolare il tricolore in tutte le occasioni possibili e a cantare l’Inno di Mameli «che rappresenta al meglio», come spiegò sulle pubbliche piazze, «il legame tra Risorgimento, Resistenza e Costituzione».
In questi pomeriggi di isolamento da coronavirus, quando appendiamo ai balconi le bandiere e cantiamo a squarciagola «l’Italia s’è desta», rammentiamo dunque anche Ciampi e gli altri intellettuali e politici che seppero esortare all’impegno civile, alla condivisione e alla fratellanza.