Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  marzo 23 Lunedì calendario

Le app per fermare il contagio

Perché ora che dovremmo usare tutta la tecnologia che abbiamo non lo stiamo facendo? L’ordine, per tutte quelle persone che non svolgono un’attività cruciale a mantenere in piedi il Paese, è di stare in casa. Una regola che in troppi violano, perché stiamo ancora combattendo con le armi del Novecento. Per vincere la sfida a questo virus subdolo bisogna partire dalle indicazioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità: «Trova il contagiato, isolalo, testalo, tratta ogni caso e traccia ogni contatto». Per fare questo rapidamente le Autorità possono chiedere agli operatori mobili di mettere a disposizione i dati in loro possesso, e tecnologie efficienti per controllare il rispetto del distanziamento sociale su larga scala, con risparmio di risorse umane delle forze dell’ordine, e canali di comunicazione con i cittadini. 
Tutti i cellulari sono «agganciati» alle celle. La rete, per essere gestita, deve sapere quanti sono attaccati a quali celle e «chi» è attaccato «dove» (altrimenti le chiamate e i dati non potrebbero arrivare e partire). Quindi in aggregato gli operatori telefonici conoscono la densità per area e gli spostamenti. Dati che vengono già conservati per un lungo periodo in caso l’autorità giudiziaria ne richieda l’utilizzo, vuol dire che è possibile ricostruire velocemente i contatti di ogni singolo contagiato nelle due settimane precedenti. In aggiunta molte applicazioni – come Facebook, Google maps, Mytaxi, Uber, Find-my-phone, Deliveroo – usano il Gps degli smartphone per dare la localizzazione del telefono, autorizzata dal possessore nelle condizioni iniziali. Questa localizzazione è molto precisa (e difatti Uber ti prende all’angolo, e Deliveroo ti legge l’indirizzo di casa) e permette comunicazioni mirate geograficamente. 
Cosa fare con un’epidemia in corso?
1) Individuati i casi di nuovi contagiati, rintracciare i contatti dei 15 giorni precedenti e testarli per interrompere la catena di contagio. 2) Sapere chi si sposta dal luogo di residenza, e dove va rispetto alle concentrazioni di contagiati è l’essenziale fotografia di partenza quando si stabiliscono blocchi alla mobilità. 3) Installare una app che individua «chi» e «dove». Per esempio se risiedi a Milano quartiere Lorenteggio, puoi vedere che al quartiere Sempione ci sono molti casi dichiarati. 4) Mantenere una fotografia «autodichiarata» della localizzazione dei sintomatici non testati aggiornata in tempo reale. 5) Assicurarsi che i contagiati in quarantena non si muovano (si possono metter sotto tracciamento e far partire un allarme se il telefono si muove). 6) Istruire le aziende che hanno lavoratori essenziali a consegnare un coupon elettronico che li autorizza a uscire (origine-destinazione dichiarati dall’azienda) e può esser verificato dalle autorità di polizia mostrando il telefono (senza autocertificazioni). 7) Distribuire il flusso nei trasporti pubblici e supermercati su diverse fasce orarie attraverso sms con ora dedicata, indicando a gruppi di residenti predefiniti le ore a loro riservate, in modo da evitare affollamenti. Dare priorità agli anziani, mantenendo nelle ore dedicate a loro una minore densità. Funzionalità che saranno importanti anche dopo la fase acuta, quando si dovranno riprendere gradualmente le attività e partiranno anche nuove onde di contagio che andranno rapidissimamente fermate. 

Il modello della Corea del Sud
In Corea del Sud alcune di queste applicazioni sono in funzione. I numeri di Seul ci dicono che imponendo una quarantena collettiva sin da subito, e l’utilizzo dei dati degli operatori mobili, le autorità sono riuscite ad arrestare la curva epidemica in poco meno di un mese. L’effetto è studiato dall’Oms come caso-scuola: il 26 febbraio a distanza di due settimane dall’adozione della app «Corona 100m» si è verificato il picco (800 contagi al giorno), esattamente il tempo di incubazione del virus. Per poi declinare fino ai circa 80 di questi giorni. Negli Stati Uniti cinque giorni fa si è tenuta una riunione ai massimi livelli alla Casa Bianca. Il presidente Donald Trump ha accolto i vertici di Google e Facebook per chiedere la loro disponibilità. 

Lo sviluppo dell’app italiana
In un documento, già sul tavolo del governo e dell’Istituto superiore di Sanità, un gruppo di economisti e scienziati dei dati, tra cui Carlo Alberto Carnevale Maffè della Bocconi ed Alfonso Fuggetta del Politecnico di Milano, ha proposto di replicare il modello Corea. Il team di specialisti di SoftMining, una spin-off dell’Università di Salerno, ha sviluppato un’app denominata «SM_Covid19» in grado di valutare il rischio di trasmissione del virus attraverso il monitoraggio di chiunque sia positivo. Gli ospedali potrebbero così leggere i dati di rischio e aggiornare lo stato di una persona (negativo o positivo al test). Se risulta positiva al test, il rischio di ogni altra persona con la quale questa sia venuta in contatto viene aggiornato automaticamente.

L’organizzazione dell’emergenza
Al lavoro c’è una squadra Covid-19 composta da personale sanitario e tecnico, che adotta un algoritmo procedurale per l’individuazione di casi sospetti. Vengono sottoposti a screening coloro che sono domiciliati o hanno soggiornato a lungo nelle zone rosse; i familiari dei casi sospetti o confermati; chi ha avuto rapporti stretti con pazienti ricoverati provenienti dalle zone rosse o dalla Cina. Il team alle dipendenze della Protezione civile, in base alle condizioni cliniche, stabilisce la necessità di ricovero ospedaliero o di test per Sars-CoV-2 e isolamento in caso di positività. Non è considerata la platea degli asintomatici, che possono continuare ad andare al lavoro (per esempio tutte le categorie che stanno garantendo i servizi essenziali), o i sintomatici lievi, ai quali viene solo consigliato di stare a casa. Potrebbero essere decine di migliaia e infettare a loro insaputa. Molti laboratori privati di diagnostica sono già attrezzati per coprirne migliaia alla settimana, ma le indicazioni del ministero della Salute predispongono il tampone solo per i casi sintomatici che necessitano di ricovero, e devono essere eseguiti solo dai laboratori accreditati, uno per regione. Da ieri potranno identificarne di aggiuntivi. Il nuovo test diagnostico dell’italiana Diasorin, che ridurrà il processo di analisi a un’ora (oggi la media è di sei) è pronto per andare in commercio, ma verrà consegnato solo ai laboratori ospedalieri.

La volontà politica
Quindi serve un maggior numero di test, una capillare tracciatura dei contatti, e gestione in sicurezza dei flussi. Ci vuole la volontà politica per mettere a terra un progetto d’urto, andando in deroga al diritto della privacy per particolari categorie di dati (la Ue lo ha già concesso); e velocità di decisione. Basterebbe un decreto del governo e un commissario che assuma la responsabilità di una gestione anonima dei dati, e della loro distruzione quando l’incubo sarà finito. Dice Vittorio Colao, ex Ceo di Vodafone, oggi consigliere dell’americana Verizon: «Nessuno di noi si preoccupa di dare la propria localizzazione per usare mappe digitali, prendere un taxi o ordinare cibo: non ho dubbi che in un momento di grande rischio per la salute i cittadini saranno disposti ad accettare che i loro dati siano usati per rendere le loro comunità più sicure e immuni. In Europa dobbiamo usare anche la tecnologia delle reti mobili per limitare al massimo i rischi delle persone e assicurare il rispetto delle misure di protezione».