la Repubblica, 22 marzo 2020
Philip Roth è tornato (in tv)
Il romanzo di Philip Roth del 2004, Il complotto contro l’America, immagina una storia controfattuale in cui Charles Lindbergh, con una campagna incentrata sulla promessa “Prima l’America”, sconfigge Franklin Delano Roosevelt nelle elezioni presidenziali del 1940, poi, in collusione con Hitler, si lancia in un programma di antisemitismo ed espulsione degli ebrei sostenuto dallo Stato. Pochi mesi prima di morire, nel 2018, Roth mi disse in un’intervista che non aveva mai pensato al suo libro come a un’allegoria politica. Ma in quel momento, con l’amministrazione Trump in piena attività, era anche lui del parere che i paralleli fra il mondo che aveva inventato e quello che stava succedendo nell’America contemporanea fossero difficili da ignorare: un presidente demagogo che esprime apertamente ammirazione per un dittatore straniero, un’esplosione di nazionalismo di destra e isolazionismo, polarizzazione, false narrazioni, xenofobia e demonizzazione dell’altro.
Tuttavia, sottolineava Roth, una differenza c’era: Lindbergh, al contrario di Trump, era stato davvero un eroe. Sempre durante quella conversazione, lo scrittore accennò al fatto che poco tempo prima aveva accordato a David Simon il permesso di trarre una miniserie dal suo romanzo e che era sicuro, anche se non conosceva a fondo quasi nessuno dei suoi precedenti lavori, che se la sarebbe cavata bene. Adesso la parola passa agli spettatori. La trasposizione televisiva de Il complotto contro l’America – scritta a quattro mani da Simon con il fidato collaboratore Ed Burns e che vede protagonisti Winona Ryder, Zoe Kazan, John Turturro e Morgan Spector – è in onda in questi giorni su Hbo. Girata in gran parte su un set del Queens, la miniserie narra le vicende di una famiglia allargata di ebrei di Newark, nel New Jersey – nel libro sono i Roth, nella serie i Levin – alle prese con un Paese diventato pericoloso e ostile verso quelli come loro.
I parallelismi, gli echi e le connessioni con cui Roth sembrava anticipare in modo così inquietante il nostro presente sono gli elementi che più hanno stuzzicato la fantasia di Simon, che è un maestro del racconto. La sua versione del Complotto contro l’America non fa eccezione. «Quello che mi piacerebbe che la gente ricavasse dalla lettura del libro è che tutti dobbiamo essere giudicati per quello che accettiamo o che non accettiamo», ha dichiarato Simon. «Il libro funziona a meraviglia perché non parla di Lindbergh o Roosevelt, ma di sei membri di una famiglia che si trovano a vivere un clima politico molto pesante e delle loro scelte. Qual è il prezzo da pagare e quali sono le conseguenze?».
Roth era un uomo che aveva opinioni forti e non aveva paura di esprimerle. Lo stesso si può dire di Simon, che sembra più un buttafuori che uno scrittore e produttore di premiate serie tv ( The Wire ). Ex giornalista di cronaca nera, di solito non si fa intimorire da fama o potere, ma sul set del Complotto contro l’America mi ha confidato che l’unica volta in cui ha incontrato Roth «avevo il culo talmente stretto per il nervosismo che non ne sarebbe uscito uno spillo neanche a tirarlo con un trattore».
Simon non si era mai cimentato con l’adattamento di un romanzo, e a renderlo ancora più apprensivo c’era il fatto che il finale del libro di Roth non gli andava a genio. Nel racconto, Lindbergh e il suo aereo scompaiono all’improvviso; dopo un breve periodo di caos, l’ordine viene ripristinato e l’America torna alla normalità. Simon era del parere che la cosa non avrebbe funzionato per un pubblico televisivo; bisognava in qualche modo cercare di spiegare questa scomparsa. Chiese a Roth se avesse qualche idea. «Lui si mise il libro sulle ginocchia e iniziò a sfogliare le pagine», ricorda Simon. «Poi alzò gli occhi e disse: “Adesso è un problema tuo”. Come a dire: “Arrangiati, bello mio”. L’ho interpretata nel senso che potevo almeno provarci».
Negli anni, ci sono stati diversi tentativi di portare Roth sullo schermo: alcuni, come Indignazione di James Schamus, scrupolosi e bene intenzionati; altri, come Pastorale americana di Ewan McGregor, disastrosi. Nessuno può dirsi pienamente riuscito. In alcuni casi, ci sono stati errori di casting e scivoloni di regia, ma l’ostacolo principale è sempre stata la scrittura di Roth (come si fa a trasporla sullo schermo?) e il suo modo di scomporre la narrazione attraverso voci di persone che conoscono soltanto una parte della storia.
John Turturro, che interpreta Bengelsdorf nella serie tv – un rabbino del Sud che diventa un apologeta di Lindbergh, interpretato da Ben Cole – era amico di Philip Roth e ha persino collaborato con lui a un adattamento teatrale in monologo del Lamento di Portnoy, mai andato in porto. Recentemente ha dichiarato che quando Simon lo aveva contattato per la prima volta era scettico: «Gli ho detto che nessun adattamento aveva mai funzionato, perché venivano sempre fuori delle cose mozze e ti perdevi la prosa. Per questo avevo sempre voluto fare una cosa per il teatro».
Simon alla fine lo ha convinto spiegando che la Hbo aveva messo a disposizione sei ore per il progetto e sottolineando che fra tutti i libri di Roth Il complotto contro l’America era quello in cui si percepiva di più la presenza di una trama e il più adatto a una trasposizione sul piccolo schermo.
Gran parte della miniserie è stata girata su un set di Long Island che odorava di legna appena segata, ma per il resto era una meticolosa ricostruzione della casa d’infanzia di Roth a Newark: mobili di legno scuro, carta da parati sbiadita, una libreria che conteneva una serie di volumi di un’enciclopedia per ragazzi vecchi e lisi, un piano cottura smaltato, un frigorifero di prima generazione di quelli con il motore in alto. Più prendeva confidenza con Il complotto contro l’America, più Simon aveva la sensazione di affrontare alcuni nodi dei giorni nostri. «Il libro di Roth non parla soltanto dell’essere ebreo, ma del ritrovarsi in America e farla propria», aggiunge. «Parla di quella generazione che è diventata fieramente americana, del fatto che è un’evoluzione naturale, se non la ostacoli. Se smetti di bastonare la gente e sottolineare differenze, paure e risentimenti, se ci limitiamo a fare un respiro profondo e ad aspettare, tutti finiremo per americanizzarci».
Uno svantaggio, invece, è che Il complotto contro l’America è una delle narrazioni caleidoscopiche di Roth, raccontata dal punto di vista di un giovanissimo Philip, o meglio, di un Philip ormai adulto che ricorda se stesso da giovane. «Come la rendi una cosa del genere?», chiede Simon. «Con una voce fuoricampo? Si contano sulla punta delle dita i film con una voce fuoricampo che sono venuti fuori bene». La sua soluzione è stata quella di raccontare la storia da più punti di vista, compresi quelli di Herman e Bess, il padre e la madre, del fratello Sandy, di Bengelsdorf, della sorella di Bess, Evelyn, e del cugino di Philip, Alvin, che è talmente ostile a Lindbergh e Hitler che si arruola nell’esercito canadese e perde una gamba combattendo in Europa.
Simon ha raccontato che durante le riprese aveva paura di alterare lo splendido romanzo di Roth. «Nell’adattamento, alcune cose le perdi, altre magari le guadagni; fa parte del gioco», ha detto. «All’inizio ero davvero preoccupato per la violenza che avrei fatto al libro di Roth. E confesso che a metà dell’opera ho pensato: “Sto sbagliando qualcosa di fondamentale”. E quando lui è morto ho pensato: “Mi dispiace che non sia più tra noi, ma almeno non dovrò mostrargli il lavoro che ho fatto"». «E adesso mi dispiace proprio tanto», ha aggiunto. «Perché alla fine è venuta fuori una roba di qualità, e penso che gli sarebbe piaciuta».
Simon ha ammesso che la conclusione della serie è molto più cupa e incerta di quella del romanzo, un riflesso del momento culturale che stiamo vivendo. «Pensi che riusciremo a tornare alla normalità dopo Trump?», dice. «Non lo so. La cosa mi spaventa parecchio. C’è qualcosa che è profondamente cambiato nel nostro comportamento politico generale, e non mi sembra che stiamo affrontando il problema. «La discussione è se Donald Trump sia buono o cattivo», aggiunge. «Come se la questione finisse con lui».
©The New York Times 2020
(Traduzione di Fabio Galimberti)