la Repubblica, 22 marzo 2020
Il romanzo popolare di Gianni Mura
Tra Gianni e la sua scrittura non c’era nessuna distanza. La persona e le parole coincidevano, erano la stessa identica cosa, materia della stessa vita. Se lo abbiamo letto e amato in tanti, davvero in tanti, è per questa sua straordinaria interezza, rara nei giornalisti, rarissima negli intellettuali, un poco più frequente negli artisti.
Leggerlo era come incontrarlo per davvero, come essere seduti con lui attorno a un tavolo di osteria lombarda o in una brasserie lungo le strade del Tour, con un bicchiere alla portata di ogni mano, pane, formaggi, salumi (non era vegano), la sua grande faccia barbuta e la sua pancia falstaffiana che presidiavano la scena. Meglio se con un mazzo di carte a disposizione. Meglio ancora se era notte fonda, perché l’oltranza nel gioco, e nella compagnia, e nella chiacchiera, erano per lui una prova d’amore per la vita. Era severo con chi si alzava da tavola, e dal tavolo, troppo in anticipo. Ne so qualcosa, mi viene sonno presto.
Il Mura era un sentimentale e, nel profondo, un timido. Probabile che la ruvidezza (incantevole) di certi suoi giudizi, e la maniera chiara, quasi brusca di raccontare – mai un fronzolo, mai una belluria superflua – gli servisse anche per non farsi sopraffare dai sentimenti, tanti, che custodiva dentro il suo sguardo scuro, spesso corrucciato. Quando raccontava tirava diritto (è la lezione, impareggiabile, del giornalismo sportivo, che deve avere il ritmo della gara) e quello che preferiva non dire in prima persona lo faceva dire ai poeti e agli chansonniers che citava continuamente, come mazzi di fiori ai margini della sua lunga corsa, lui chino sulla tastiera – i suoi pedali – a raccontare, i versi dei poeti e le canzoni che gli sventolavano nel cuore, e nei prati attorno.
Era stonatissimo ma gli piaceva molto cantare. Ha cantato al telefono, per gli amici, anche nelle sue ultime ore di vita, in un letto di ospedale, solo con la sua prodigiosa memoria. Era un catalogo vivente di cantautori, dischi a 45 e 33 giri (si ricordava anche le copertine), libri e libriccini di poeti anche minori, testi di canzoni. Con lui se ne va, quanto a memoria poetica, la Biblioteca di Alessandria. Qualcuno estragga dal suo grande cuore, per piacere, il corpus infinito di versi e di note che lo occupano, e ce lo restituisca. È roba nostra, ridatecela.
La sua scrittura era una miscela formidabile di cronaca (i fatti, le gesta, che nello sport sono tutto, come nei poemi omerici) e di partecipazione umana ai fatti narrati. Gianni era sempre dentro il suo racconto. Si indignava per i soprusi, si commuoveva per i gesti nobili, si emozionava per le grandi imprese, amò Pantani e pianse la sua caduta, detestava il cinismo miliardario di certi ambienti sportivi, amava l’umiltà dei gregari, le storie di fatica e di riscatto, le sapeva raccontare come nessuno. C’era umanità in ogni sua cellula, e c’era la ricerca inesausta dell’umanità in ogni sua parola. Lo deludeva, dei nostri tempi, l’inumanità, Gianni aveva qualcosa di “antimoderno”, teneva in gran sospetto la tecnologia, fu tra gli ultimi giornalisti italiani ad arrangiarsi, brontolando, a usare il computer, ma ne avrebbe fatto volentieri a meno.
Gli volevamo bene anche per questo suo anacronismo eroico, e forse preveggente: non era in ansia per la nostalgia della vecchia Olivetti, ma perché faticava a ritrovare, nei tempi nuovi, quegli elementi di amicizia e di convivio – oso dire di fraternità e di amore – che sono stati la sua ragione di vita.
Se penso a Gianni, e lo penserò per sempre, penso anche, come è giusto che sia, a un italiano di sinistra. Se avete presente il cliché, parecchio cretino come tutti i cliché, del radical-chic, beh Gianni lo frantumava in mezzo secondo. Figlio di un carabiniere sardo, il Mura era un uomo del popolo. Voleva bene ai perdenti e gli umili, odiava l’arroganza e il privilegio, e tra un tre stelle fighetto (anche se sapeva riconoscere qualità e merito di un tre stelle fighetto) e una bettola sapiente, il suo cuore era con la bettola sapiente. I cuochi, le cuoche e la cucina gli piacevano, come al suo maestro Brera, per l’operosa cura nei confronti della terra e dei suoi prodotti. Ebbe molto da ridire, come gastronomo, sulle mode futili e passeggere, si spese molto per la cucina popolare, sostanziosa e colta che, con la moglie Paola Gius, rintracciava per i borghi e le contrade d’Italia nella rubrica sul Venerdì.
Una cosa importante da dire, salutando la sua imprevista partenza per non si sa quale brasserie, è che gli amici (tanti) e i lettori (tantissimi) possono ben dire di avere conosciuto lo stesso Mura. Vi chiedo, ovunque voi siate, di stappare una bottiglia per lui, e levare il bicchiere, così come stanno facendo i suoi amici. Una delle cose più tremende di questi giorni è che non si possono fare i funerali. Il suo sarebbe stato – e sarà, appena possibile – pieno di cose da mangiare e di cose da cantare. Se conoscete qualche canzone di Endrigo cantatela per lui, era il suo preferito. Basta anche qualche verso. Basta un sorso, un pensiero, un ringraziamento, una pedalata sulle Alpi francesi o sui Pirenei, e Gianni Mura sarà di nuovo insieme a noi. Per sempre insieme a noi.