il Giornale, 22 marzo 2020
Cristoforo Colombo era catalano?
A rischio di rimanere a corto di fiato, con un po’ d’impegno dialettico, si riesce a strappare dalla bocca di un catalano un aggettivo decente sull’ex re Juan Carlos I. Scordatevi, invece, di far ammettere che Cristoforo Colombo, nato a Genova nel 1451 e morto cinquantaquattro anni dopo in Spagna, fosse italiano. Cristòfor Colom non era nemmeno spagnolo, bensì un catalano, cento per cento. Oltre a storici rampanti, esiste una Wikipedia in catalano che lo predica, non la Britannica, per intenderci.
Il navigatore genovese, che in vita mai affondò nella pancia dell’Atlantico, da morto è colato a picco nella fossa marina dell’indipendentismo catalano, amante della deformazione storica. E guai a negarlo, arrivereste alle mani. «Colom non era né spagnolo, né galiziano. E nemmeno delle Isole Baleari, figuriamoci se portoghese» recita il documento Catalanitat de Cristòfor Colom, l’improbabile genesi catalana partorita dall’enciclopedia «fai da te». Colombo «benché si affermi che possa essere nato a Genova o in Sardegna, aveva padre e madre catalani, forse originari di Girona, o forse di Tarragona, o Ibiza». E «per colpa della documentazione andata persa, nei secoli si è rafforzata l’idea che fosse di famiglia genovese», afferma l’oracolo wikipediano catalano, colpevolizzando il Franchismo per avere imposto la paternità agli italiani. Al Museo d’Arte Contemporanea di Barcellona (Macba) fu esposta una mostra di quadri sul navigatore dal titolo «Cristoforo Colombo il Catalano». Contraddittorio, però, è affermare che l’ammiraglio, eroe catalano, sia stato, «un conquistatore spietato e imperialista, al soldo della regina Isabella di Spagna». Pur biasimandolo, per i secessionisti «è un gran bastardo, da ammirare». Come del resto era catalano anche lo spagnolissimo conquistador, Francisco Pizarro. Immaginatelo indipendentista che entra nella capitale azteca di Tenochtitlàn, dopo la sanguinosa strage, sventolando la bandera estellada, simbolo secessionista.
Di Colombo, secondo la storia riscritta, si dice che parlasse catalano, spagnolo e portoghese, ma non capisse bene l’italiano, a stento il genovese. E «nel secondo tentativo di navigare da Occidente per le Indie recita wikipedia separatista -, non partì da Palos, nel golfo di Cadice, ma dal piccolo porto di Pals, situato nella comarca catalana». Questo sarebbe scritto negli Annali di Catalogna dello storico catalano Narcis Feliu de la Pea (1709). E non paghi di averci compromesso Colombo, i catalani rivendicano anche la paternità di Leonardo Da Vinci, che non mangiava la ribollita, ma la fideua, una sorta di paella nazionalista.
Quindi, oltre a dovere digerire che Barcellona «è la città che ospitò la scoperta dell’America», gli italiani devono anche sorbirsi la storia che l’autore della Gioconda era catalano. E da cosa si deduce? Dallo scudo dei Da Vinci: tre barre rosse su fondo giallo, i colori catalani. Secondo indizio, la lingua: anche Leonardo, come Colombo, non scriveva bene in italiano, faceva troppi errori di concordanza: «Non dominava la sua lingua o ne scriveva una che non era la sua?». Il Codex Magliabechiano del 1565 rivela che Leonardo era figlio illegittimo, nato con buon sangue da parte materna. Il cognome Da Vinci non ha origini in Italia, però sì in Catalogna: Vinçà, anticamente Vinciano, nella zona di Conflent. Se poi da Vinci indicasse, non il cognome, ma la provenienza, agli storici secessionisti catalani non interessa. A Barcellona, inoltre, sarebbe stato presente un Giovanni Da Vinci, ma Giovanni non è nome catalano. Alcuni dei suoi eredi sono di origini catalane e valenziane, in molti dei suoi quadri, il paesaggio non è toscano, ma della zona catalana di Montserrat. Inoltre, la nobile famiglia italiana dei Casanova, anch’essa originaria della Catalogna, aveva il medesimo emblema dei Da Vinci (se Da Vinci fosse il cognome), tre barre vermiglio su fondo giallo. E non bisogna nascondere che Leonardo e Colombo erano amici di Amerigo Vespucci, vero nome, Aimerich Despuig, sebbene in Spagna si firmasse come Despuchi, apparteneva a una famiglia nobile catalana. Parola dell’Istitut Nova Història de Catalunya che, con sei milioni di euro donati dalla Generalitat, ha prodotto sei documentari sul canale pubblico Tv3 finalizzati a «sfatare la secolare manipolazione storica svolta dallo Stato spagnolo».
Per fortuna o per cattiva sorte, anche gli spagnoli non sono indenni dai furti d’identità dalla mano indipendentista catalana. Jordi Nilbeny, ricercatore catalano, sostiene che Don Chisciotte è, in verità, opera di Miguel Servent, poeta e letterato di Xixona, Alicante, nella Comunità di Valencia, regione di profonda influenza culturale catalana. L’opera massima della letteratura castigliana fu scritta in catalano, poi proditoriamente tradotta nella lingua di corte, il castigliano. «Cervantes dice me l’hanno tradotto, io invece di essere padre sono patrigno», afferma Nilbeny. E, guarda caso, le edizioni originarie in catalano sono sparite. «Cervantes si lamenta anche: Ci hanno proibito la lingua, ma non la piuma. A che lingua si riferisce? Al catalano!». La questione Cervantes/Servent diventa, poi, un mistero, ai limiti del complotto: il povero Servent avrebbe visto le sue opere pubblicate anche in inglese, sotto lo pseudonimo di tale William Shakespeare.