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 2020  marzo 22 Domenica calendario

Maradona di regime

Di Diego Armando Maradona ricordiamo molti gol da genio del calcio. E poi uno, molto famoso, segnato di mano all’Inghilterra durante i Mondiali del 1986, da autentico imbroglione. Le sue erano prestazioni funamboliche, nervose, allo zenit della volontà e della tecnica che un essere umano può applicare a una sfera di cuoio su un manto erboso. Ma non mancarono prestazioni del Pibe de orointinte nei veleni del doping, spinte dall’efedrina, come ai Mondiali di Usa 1994, o avvolte dal sospetto che fossero, almeno in parte, innescate dalla cocaina. Anche se Maradona, pur confessando una dipendenza dagli stupefacenti iniziata all’età di 22 anni, ha sempre negato di avere assunto sostanze per migliorare le sue prestazioni.
Nonostante il talento naturale, capace di fargli vincere le partite da solo, Maradona era anche un grande giocatore da squadra, disposto a incoraggiare e a sostenere i compagni. Un essere umano tanto a suo agio con la palla tra i piedi quanto maledettamente fragile nella vita, più bravo a vincere che a perdere, coraggioso e dotato di una tecnica sublime, la cosa più vicina a Pelè che poteva capitare di vedere. E lo stesso Pelè un bel giorno suggerì, non a torto, che lo straordinario talento di Maradona fosse continuamente minato dalle sue debolezze di persona impreparata al successo, nata nelle baraccopoli di Buenos Aires e ben presto travolta dalla complessità, dallo sfarzo, dall’eccesso di fama e ricchezza che il suo talento gli aveva inevitabilmente costruito intorno. Con robusto contorno di parassiti, loschi individui, puttane e cicisbei.
Adesso che Maradona è un grasso sessantenne, e ondeggia tra un’esistenza da allenatore girovago e comparsate da commentatore televisivo, il passare del tempo accende di nuovo l’interesse sulla biografia non autorizzata scritta da Jimmy Burns, giornalista investigativo, esperto di calcio e di politica estera (nel 1982 è stato l’unico corrispondente estero inglese in Argentina durante la guerra delle Falkland). Quella di Burns, più che una storia di Maradona, è un’indagine poliziesca sul calcio argentino e mondiale. Un’indagine rivista e aggiornata, dopo una lontana prima edizione comparsa alla fine degli anni Novanta.
Nel racconto di Burns le parti più coinvolgenti non sono il controllo di palla di Diego, il suo cambio di passo elettrico e il suo tocco matematicamente preciso. A esercitare un fascino ipnotico è la genesi del fenomeno Maradona all’ombra della dittatura argentina, alla fine degli anni 70. Maradona era un buon diversivo ogni volta che il regime si trovava in difficoltà. Faceva felice la gente. Se gli antichi romani usavano il circo, i militari argentini il calcio. Quelli del 1978, per i quali peraltro Maradona non fu selezionato in extremis, furono i Mondiali della vergogna, quelli che la nazionale albiceleste, guidata da Cesare Menotti, doveva vincere non solo come Paese ospitante, ma anche per coprire i crimini della giunta militare al potere.
Maradona rimase a giocare in patria fino a quando i militari pensarono di utilizzarlo a fini politici. Poi iniziò la sua parabola europea, dapprima al Barcellona, poi al Napoli. Erano gli anni 80 del secolo scorso. Attraversati da una partita indimenticabile, Argentina-Inghilterra, il quarto di finale dei Mondiali del 1986 giocato all’Azteca di Città del Messico il 22 giugno. È lì che Maradona segna con la mano agli inglesi, al 51° minuto, e l’arbitro non si accorge di niente, convalida e indica il centrocampo. La mano de Dios , ha più volte affermato Maradona, è stata una dolce vendetta per tutti i chicos argentni uccisi «come uccellini» nella guerra delle Falkland.
Purtroppo, dopo quell’episodio visto in mondovisione, barare diventò parte del calcio così come lo sono diventati gli sponsor. Ma quella partita non aveva finito di stupire. Nello stesso incontro, Diego segna un gol capolavoro. Una discesa spettacolare, in cui Maradona parte dalla sua metà campo palla al piede, salta come birilli tre-quattro inglesi in una progressione fulminante, fa evaporare con le sue finte anche il portiere Shilton e deposita la palla in rete. Polvere di stelle, fiesta messicana. Ma il capolavoro, pur restando negli annali, non basta a cancellare uno dei più grandi imbrogli della storia dello sport. 
A Napoli e nel Napoli, che guidò per la prima volta alla conquista dello scudetto nel maggio 1987, Maradona, ricorda Burns, diventò una specie di San Gennaro con gli scarpini, capace di trasformare le cose normali in miracoli. Fu preda della camorra, facendosi fotografare come una mascotte con boss locali, più o meno inconsapevolmente. Spesso infatti Maradona non si rendeva conto di chi fossero i suoi veri amici, così come, del resto, non si rendeva bene conto di chi fosse lui stesso.
L’ultimo atto della commedia del Pibe de oro ha come teatro i Mondiali di Usa 1994. Il giocatore è accusato di doping. Positivo all’efedrina contro la Nigeria. Era dall’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, osserva Burns, che una notizia proveniente da Dallas non provocava reazioni in tutto il mondo come accadde il giorno in cui fu annunciata la positività di Maradona all’antidoping. E Diego, anche questa volta, non mancò di dare al mondo l’immagine del genio vittima di una congiura. «Il problema di Maradona – ha dichiarato una volta Mario Kempes, attaccante di razza dell’Argentina campione del mondo nel 1978 – è la gente che ha intorno. Gente che dice sempre di sì. Che bravo Diego, gli dà sempre ragione. Qualcuno avrebbe dovuto prenderlo da parte e dirgli: Diego, così ti uccidi».