Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2020
Piccolo compendio di film virali
Costretti all’ozio dal covid-19, ci consoliamo rivedendo vecchi film. Cominciamo con Bandiera gialla di Elia Kazan (1950) e continuiamo con altri, tutti “virali”: Andromeda (Robert Wise, 1971), La peste (Luis Puenzo, 1992), L’esercito delle 12 scimmie (Terry Gilliam, 1995), Virus letale (Wolfgang Petersen, 1995), 28 giorni dopo (Danny Boyle, 2002), Blindness (Fernando Meirelles, 2008), Contagion (Steven Soderbergh, 2011), e alla fine L’invasione degli ultracorpi (1956), girato da Don Siegel in pieno maccartismo.
Torniamo a Bandiera gialla. Clint, tenente medico, deve arginare la peste che uno sconosciuto ha portato da lontano. La nave su cui ha viaggiato è salpata da Orano. Questo si dice nel film, e il rimando non pare casuale. Tre anni prima, nel 1947, a Orano Albert Camus ha fatto vivere Bernard Rieux. Clint non è un altro Rieux. Non ha il coraggio antieroico e laico che il medico di La peste oppone al male, né la sua profondità, ma come lui prende su di sé la responsabilità e la cura di chi sta per morire. Lo fa nella certezza che non contino solo i membri della sua comunità, ma anche tutti gli uomini e le donne che una fuga dalla città provocata dal panico esporrebbe al contagio.
Quanto a Puenzo, per “rimodernare” Camus ambienta La peste non a Orano in Algeria, ma a Orán in Argentina, negli anni 90. Il risultato è increscioso, con i topi che non muoiono più sui pianerottoli, ma si infilano sotto le gonne di Sandrine Bonnaire, risibile versione femminile di Rambert, il giornalista collaboratore di Rieux. Niente resta di quel grande libro, né il riferimento ai totalitarismi, né la metafora della peste come pratica dell’uccidere, si tratti della pena di morte o dei “criminali innocenti” che fanno morire gli uomini perché viva il Bene.
Decidiamo dunque di lasciar tornare questo scempio nell’oblio da cui l’abbiamo tolto, e ci rifugiamo prima in Andromeda – qui, anche per merito del racconto di Michael Chrichton, il virus portato sulla Terra da un satellite è metafora della cattiva coscienza americana per la guerra in Vietnam –, e poi ne L’esercito delle 12 scimmie, con un’umanità quasi distrutta da un virus e costretta a vivere sottoterra, mentre gli animali sono tornati padroni del mondo. Ed era ora, pare voglia dire Gilliam.
Accettabili ci sembrano Blindness – tratto da Cecità di José Saramago, ma senza la sua forza simbolica – e Virus letale, che però non va oltre gli stereotipi di un buon thriller. Quanto a 28 giorni dopo, in cui il virus della rabbia di alcune scimmie scatena la ferocia degli uomini, Boyle ha fatto di peggio, ma anche di meglio. Ancora oggi suggestivo è invece Contagion, in cui, raccontando un’epidemia, Soderbergh evoca la precarietà del mondo umano sospeso sull’abisso del caso, e il valore fragile della sua bellezza.
E siamo a L’invasione degli ultracorpi. Nelle case di una piccola città, nelle loro cantine, certi grossi baccelli venuti dallo spazio prendono le sembianze di chi ci abita. Ognuno, suggerisce Siegel, nasconde dentro di sé qualcosa di mostruosamente normale, che lo divora e lo spinge a divorare chi sia diverso. Scrive Camus che il bacillo della peste, di questa peste, non muore mai. Solo aspetta nelle cantine, pronto a mandare «per sventura e insegnamento agli uomini» i suoi topi in una città che era felice. Sperando che non accada, torniamo a goderci con altri vecchi film il nostro ozio, per quanto forzato.