22 marzo 2020
In morte di Gianni Mura (due articoli)
Gigi Garanzini, La Stampa
Caro Gianni, finiranno anche questi giorni maledetti e troveremo il posto e il modo di ricordarti tutti insieme. Noi senzabrera, uno dei tuoi tanti fior di conio, da oggi anche senzamura. E dovremo abituarci a fare a meno dei tuoi cattivi pensieri, dei ritratti, di quelle interviste asciutte e insieme partecipi che rimandavano dritto a Enzo Biagi. Degli appuntamenti di gala cui da quarant’anni avevi abituato i lettori di Repubblica, a cominciare dalle corrispondenze dal Tour che nei giorni migliori, cioè quasi tutti, erano racconti da antologia. E che sino a non molto tempo fa battevi sui tasti della lettera 22, una delle tante che collezionavi casomai avessero smesso di produrle. Qualcuno ti guardava storto, per il fracasso: ma i vecchi suiveurs ti adoravano a maggior ragione, e quanti di loro ti seguivano la sera a tavola sapendo che avresti scovato il posto giusto per le andouillettes o il pot au feu.
Barbaresco alla memoria
Caro Gianni, ti ricordi Siviglia ’82? Ci conoscevamo di vista, ma fu a quel Mondiale che diventammo amici se non direttamente fratelli. Il vino la sera ovviamente lo sceglievi tu, e ricordo che ti raccomandavi, cosecha joven, annata recente: avremmo avuto poi tanti, tanti anni per passare all’invecchiamento. Adesso per esempio, sto andando a Barbaresco, un 2004 d’autore in memoria tua e di quell’altro Gianni: non ti ho mai chiesto cosa bevesti quel giorno a Malta per scrivere il coccodrillo di Brera, il capolavoro assoluto della tua carriera. Adesso è tardi. E sì che ancora tre giorni fa, avendoti detto che la voce mi sembrava tonica, ti sei messo a cantare una canzone sconosciuta: come fai a non ricordarla, l’ha cantata Betty Zambruno la sera del tuo matrimonio e io pirla che ti ho anche fatto da testimone.
Le partite a carte in tribuna
Caro Gianni, quanta vita bella abbiamo passato insieme. Ma te le ricordi le sfide a scopa in tribuna stampa con le telecamere che passavano a riprenderci? E la volta che ti dissi, settembre ’95, faccio un programma notturno su Raitre, ti va di venirci? Non mettermi in difficoltà, sai che la tv non è il mio genere. Ma è una cosa diversa, si beve e si fuma pure. Beh, allora. Era un sardo testardo, che fa anche rima. Ma di una generosità sconfinata. Non ha mai detto di no a una serata, una conferenza, una richiesta di prefazione: sapeva di essere stato baciato dal talento e sentiva il bisogno di ricambiare. È stato senza dubbio alcuno, l’unico erede possibile di Gioanbrerafucarlo. Ma questo gli è sempre costato uno sforzo in più: quello di coltivarne per primo la memoria, e l’irripetibile lezione, tenendosi alla larga dall’imitarlo.
In tuo onore al Maracanà
Caro Gianni, nei tuoi voti a rendere sarei da 6 o da -2? Mi manca lo spazio per andare oltre, a cominciare da una memoria altro che Pico della Mirandola. Le sfide mnemoniche per star svegli rincasando, calciatori che cominciano per S, canzoni con la C, scrittori con la P. Tre nomi tu e uno io, avessi mai vinto una volta. Ah, il posto l’abbiamo trovato, non era poi così difficile. A due passi da casa tua, nel salone delle feste dell’Osteria del Treno che tanti anni fa battezzammo insieme Maracanà. Solo, ci vorrà un po’. Porta pazienza.
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Emanuela Audisio, la Repubblica
Se n’è andato nel primo giorno di una primavera deserta, ma già piena di margherite. Alle otto di mattina di un sabato in cui il suo ciclismo (Milano-Sanremo) aveva smesso di correre e alla vigilia di una domenica senza calcio. Chissà, forse Gianni in un mondo così, «senza», non ci stava più. Aveva telefonato la sera prima: «Bevete, anche se io non ci sono». Pronta la risposta: «Ma no Gianni, ti aspettiamo». Ma non c’è più nulla da festeggiare. Aveva voluto il computer in ospedale, perché era un uomo di doveri, e c’erano i Sette giorni di cattivi pensieri da scrivere. Paola, la moglie, glielo aveva portato, con il quaderno a quadrettoni, dove lui annotava i suoi giochi di parole. «Stanotte, ne ho pensato uno: diamante, gioiello extraconiugale». Gianni ti sfiorava, era leggero in tutto: con le parole, con i gesti, con i pensieri. E aveva un italiano splendido, semplice, nitido. Grande anche la sua generosità, non arrivava mai a mani vuote. Ti stroncava con i riferimenti a canzoni, libri, autori, anche dialettali, ricordi, paesaggi. Ne aveva in abbondanza, per tutto e per tutti. Non era tipo che risparmiasse: sulle bottiglie di vino, sul pecorino di Cugusi («pastore, non agricoltore»), sul pane e salame, sulla musica, sulla letteratura, sulla poesia, sul versare e condividere con gli altri, sullo scassarsi il cuore. Con lui, facevi scorpacciate: di curiosità, di raffinatezza, di Fréhel (l’aveva come salvaschermo), Brel, Piaf, Jean Ferrat, Giovanna Marini, Ricky Gianco, De Gregori, Capossela. La suoneria del suo cellulare era Chants de partisans , una Bella Ciao francese. Gli piaceva la gente genuina, giocare a carte (scopone), le parole crociate. Aveva una memoria strepitosa, non si perdeva niente, mandava spesso l’articolo a braccio, dettava in pochi minuti, provateci voi a sintetizzare una partita (ai rigori), a raccontare una morte (quella di Pantani) e una vita (quella di Gimondi) mentre state al ristorante o su un traghetto. Amava gli irregolari, il fumo, la libertà, i romantici, quelli che si buttano a salvare l’amico anche se non sanno nuotare, quelli che fanno, senza chiedersi se conviene, tutto quello che è sulla strada.
Anche se nella rubrica dava voti, cercava sempre di capire più che di giudicare. Era molto pudico, rispettava gli imbarazzi e le leggi, figlio di maresciallo («Il Maigret della Brianza»), si fermava ai semafori gialli e guidava con molta prudenza. Solo il suo cuore era eccessivo: si dava per le giuste e buone cause, e tutti lo chiamavano perché sapevano che Mura avrebbe risposto all’appello. Lo consideravano un critico, ma lui preferiva la parola raccontatore. Era arrivato a Senigallia in convalescenza da una polmonite di dicembre, perché i dottori gli avevano raccomandato l’aria di mare. Aveva perso molti chili («Sono sotto i 100»), a tavola mangiava poco (una banana a pranzo), ma se passavano gli amici apriva subito una bottiglia. Aveva subito sostenuto l’economia locale (quando ancora si poteva uscire) comprando pecorini e vini, della zona e non, contento di trovare il gorgonzola di capra della Latteria sociale di Cameri, lo stracchino di Sabelli e il Cannonau di Pusole. Era rimasto commosso dalla cura con cui nel suo negozio Francesco tagliava a mano il prosciutto: «Vedessi i suoi occhi e la dolcezza della sua mano». Gianni capiva, non aveva bisogno di Internet, ma è bello che in questi giorni in cui si può niente ci sia il web a ricordare un uomo che aveva attraversato il grande e piccolo sport senza mai dire io, ma sempre lei. E trattando con lo stesso rispetto brocchi e campioni.
Lunedì mattina per strada Gianni si era sentito male, Paola l’aveva soccorso, un messaggio cardiaco di un generoso dottore l’aveva salvato. Mura si era ripreso. All’ospedale di Senigallia i due cardiologi, il primario Antonio Mariani e Fabrizio Buffarini, si erano accorti che il cuore di Gianni aveva un grave scompenso, c’era un’insufficienza aortica. L’altra mattina un’ischemia miocardica è stata una salita troppo dura. Al dottore che gli aveva chiesto che lavoro facesse, Gianni aveva risposto: sedentario. Già, come no: con 33 Tour de France sulle spalle e con un premio Blondin (unico non francofono a vincerlo) assegnatogli nel 2015 «per la prosa meravigliosa». Tanto che L’Equipe lo ricorda come memoria vivente della corsa facendo notare che era nato «nel ’45 come Eddy Merckx». Le ultime sere con Paola guardava in tv L’Eredità e sì le parole le sapeva tutte subito, senza vantarsi. Si era spazientito solo alla mancata risposta di chi fosse La canzone di Marinella. Vai a casa, se non conosci De André.
Alla fine dei suoi racconti sulle vite degli amici persi scriveva sempre: ti sia lieve la terra. Paola l’ha vestito con i jeans, una polo, un golf e scarpe sportive. Non era tipo da cravatta, ma era elegantissimo nella sua semplicità da Mura. Io invece vorrei che la terra diventasse dura, ferrosa, respingente. Che ci restituisse Gianni che credeva nella libertà e che la poesia è un po’ come la Provenza: non sei tu che ci entri, al chilometro tale, ma è lei che ti viene incontro, che s’annuncia con i colori dei campi di lavanda e di girasole. E che voleva bene alle fisarmoniche appoggiate su una sedia. Diceva che sono l’unico strumento che si dilata. Dimenticava il suo cuore.