La Stampa, 22 marzo 2020
Ritratto di Renzo Piano
Il contrario di città non è la campagna, ma il deserto. Deserto come luogo fisico e come solitudine esistenziale». Così mi ha detto Renzo Piano poche settimane fa, a cena nella sua splendida casa affacciata su Place des Vosges, a Parigi. Parlava del concetto di centro urbano con una passione che è sempre mitigata da un velo d’ironia: crede fino in fondo nei concetti che esprime, ma non perde mai il senso del limite e della fallacia. E non perde mai il rispetto per un’opinione diversa, persino opposta, sulla quale riflette sempre, elaborandola. Questa apparente contraddizione genera un atteggiamento di grandissimo fascino, arricchito ulteriormente da un’eleganza naturale e una cultura eclettica quanto profonda.
Per esaltare l’importanza della città, quella sera Renzo citò anche testi religiosi quali La Città di Dio di Agostino d’Ippona, insospettabili per chi lo conosce in superficie, per poi spaziare nel racconto di metropoli del passato e del presente, inseguendo anche le suggestioni di come si possa immaginare una città del futuro. Riflettendo sull’idea di metropoli una volta ha dichiarato: «L’Europa è tutta una grande città, e il treno è la sua metropolitana. Da Parigi si va in treno a Londra, Bruxelles, Amsterdam. L’Europa è il mio Paese, è la mia città». Forse anche per questo si è stabilito da molti anni con la famiglia a Parigi, e vive solo una parte dell’anno nella sua Genova: gran parte del suo tempo lo passa in viaggio per seguire i cantieri aperti in tutto il mondo.
La dichiarazione d’orgoglio nei confronti dell’Europa non gli ha impedito di realizzare strutture meravigliose in luoghi lontani dalle sue radici quali Houston, dove ha disegnato il museo Menil, o addirittura agli antipodi dell’Italia come la Nuova Caledonia, dove ha edificato quello che è forse il suo capolavoro, il Centro Jean-Marie Tjibaou. È impressionante come sia riuscito, con una serie di costruzioni potenti e leggerissime, a esaltare la cultura Kanak della Melanesia realizzando qualcosa che tuttavia è immediatamente identificabile con il suo stile architettonico, celebrando nello stesso tempo l’operato del leader assassinato a cui il centro è dedicato. L’idea di lasciare i sette padiglioni apparentemente incompleti comunica una sensazione struggente rispetto alla morte prematura di Tjibaou, ma, nello stesso tempo, lo slancio verso il cielo regala un anelito verso qualcosa di più alto, e la promessa che il suo messaggio rimarrà in vita.
L’eclettismo e la capacità di interpretare culture distanti rimanendo fedele a se stesso è evidente anche in altre magnifiche opere quali l’aeroporto Kansai di Osaka, in Giappone, l’estensione della Morgan Library a New York, il Museo d’arte moderna di Oslo o l’Aurora Place di Sydney. Quando parla del suo lavoro ti rendi conto che uno degli aspetti più sorprendenti della sua personalità sia l’umiltà con cui discute dell’architettura esaltando parallelamente forme espressive snobbate da molti suoi colleghi. A cominciare dal cinema, che vede con incanto: si entusiasma di fronte alla mescolanza di diversi linguaggi e al risultato di un complesso lavoro di squadra. L’ho ripetutamente tormentato chiedendogli se consideri l’architettura un’arte, e la risposta è sempre stata no, ma poi, quando l’ho provocato riferendogli che Paul Schrader sostiene che «i dittatori amano gli architetti e odiano i poeti», mi ha risposto «comprendo cosa intenda Schrader, e capisco l’idea del dittatore che predilige chi crea ordine invece di chi tende a metterlo in crisi, tuttavia anche gli architetti possono essere poeti».
In un’altra occasione mi ha citato qualcosa che parte dalla stessa intuizione: «Non è solo la dittatura, ma è la politica in generale a temere il talento perché il talento ti regala la libertà e la forza di ribellarti». Queste affermazioni devono essere messe in parallelo con qualcosa che ha affermato in tempi non sospetti: «Fare architettura significa costruire edifici per la gente, università, musei, scuole, sale per concerti: sono tutti luoghi che diventano avamposti contro l’imbarbarimento». Rispetto all’idea di ordine, e del rapporto che ha con la libertà creativa ha idee precise e spesso controcorrente: «Per un architetto la libertà non è un grande regalo. Ringrazio il cielo quando mi danno indicazioni precise: sono come i quadretti sul foglio bianco che è il progetto».
Ancora oggi scherza sulle reazioni sconcertate nel momento in cui venne svelato al pubblico il Centre Pompidou, che realizzò a soli 34 anni insieme a Richard Rogers. I due architetti, che sono rimasti grandi amici anche dopo la decisione di percorrere strade autonome, avevano vinto un concorso al quale avevano partecipato ben 681 studi architettonici, e ci volle tempo prima che l’edificio, rivoluzionario ed efficientissimo, venisse riconosciuto come un’icona parigina. In quei primi giorni capitò anche che venissero minacciati con un ombrello da una signora anziana che li aveva identificati come i responsabili del museo, ma fu proprio in quella occasione che apprese da Roberto Rossellini una lezione di cui ha fatto tesoro: «Guarda le tue opere negli occhi di chi le guarda».
Fa sempre impressione sentirlo parlare con assoluta non chalance e senza alcuna forma di snobismo di personalità diversissime con le quali ha avuto in passato un rapporto di sincera amicizia, o frequenta tuttora abitualmente: da Barack Obama a Claudio Abbado, da Steven Spielberg a Luciano Berio, per non parlare di Italo Calvino a Meryl Streep. È tuttora molto legato agli amici conosciuti in gioventù nella sua Genova quali Gino Paoli, e ricorda con commozione Fabrizio de André, di cui cita a memoria le canzoni. Ma, specie in questi ultimi anni, nei quali sta completando la costruzione del Museo dell’Academy a Los Angeles, ha intensificato il rapporto con artisti del cinema quali Tom Hanks o Dante Ferretti.
Pochi anni fa è stato invitato alla serata degli Oscar e si è divertito come un bambino, nonostante, o forse anche perché non riconosceva almeno la metà dei divi presenti. L’ironia serve a sdrammatizzare anche problemi pratici: i lavori dell’Auditorium a Roma furono ritardati per la scoperta di ruderi romani, e sorprendentemente si verificò la stessa situazione a Londra in occasione della costruzione di The Shard, il più alto grattacielo d’Europa: quando diede l’avvio al cantiere di Los Angeles si augurò che nuove ricerche storiche non rivelassero che i romani erano arrivati anche lì. La capacità di sorridere è il contraltare di un approccio che è sempre umanista: «La bellezza cambia il mondo e lo cambia una persona alla volta» spiega, sottolineando la sacralità del singolo individuo, e riflette costantemente su quale sia l’origine della sua professione: «Quello dell’architetto è un mestiere antico. Dopo la ricerca del cibo viene la ricerca della dimora. Ad un certo punto, l’uomo, insoddisfatto dei rifugi offerti dalla natura, è diventato architetto». Tra gli infiniti attestati ricevuti, Renzo può fregiarsi della vittoria del Pritzker, equivalente al Nobel dell’architettura, ma non ne parla mai, come parla raramente della nomina a senatore a vita. Nulla tuttavia lo affascina e commuove come il mare, e la sua pausa estiva per lui è inconcepibile senza una crociera sulla barca a vela che ha disegnato personalmente.