Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  marzo 21 Sabato calendario

La guerra del petrolio ai tempi della pandemia

«Adesso gliela facciamo vedere noi»: Igor Sechin, amministratore delegato del colosso energetico Rosneft, era esaltato come un ussaro alla carica quando il suo amico di lunga data Vladimir Putin l’1 marzo scorso in una saletta di Vnukovo-2, l’aeroporto moscovita per i voli di Stato e i vip, ha dato il via libera all’offensiva. Alla riunione partecipavano i capi delle aziende petrolifere russe e alcuni ministri. La ricostruzione è della testata online The Bell, che cita persone presenti all’incontro senza rivelarne i nomi. Cinque giorni dopo, a Vienna, il ministro russo del petrolio Alexander Novak ha assestato il colpo. Facendo collassare il sistema che da oltre tre anni regolamentava i prezzi del greggio, e lasciando attoniti i suoi colleghi dell’Opec arrivati nella capitale austriaca per decidere sulle quote di produzione.

UNA “ROULETTE RUSSA” NEL MOMENTO PEGGIORE Il niet di Novak alla richiesta di partecipare a tagli produttivi a fronte del calo della domanda globale, seguìto dalla decisione dell’Arabia Saudita di accettare la guerra al ribasso vendendo a sconto e aprendo i rubinetti, ha provocato il maggior tonfo dei prezzi dal 1991, quando Bush senior lanciò l’operazione Desert Storm contro Saddam. Si potrebbe pensare che il petrolio a buon mercato aiuti i consumatori e le economie, come ha subito urlato Donald Trump via Twitter. Ma non è esattamente così. Non siamo negli Anni 70 del secolo scorso. L’inflazione è ai minimi, l’industria pesante conta meno ed è più efficiente. Soprattutto, oggi al prezzo del greggio è legata una miriade di contratti finanziari vitali per gli investimenti in tutti i settori. Questi contratti, per dirla col premio Nobel Paul Krugman «sono diventati un volano per l’economia». In America e nel resto del mondo. Ecco perché la picchiata del petrolio fa paura e compromette ulteriormente la situazione delle borse travolte dal virus. E il rischio aggiuntivo contribuisce a una generale impennata dei costi dell’indebitamento pubblico. Proprio adesso, quando la necessità di espandere la spesa per la sanità e per il sostegno a cittadini e imprese diventa drammatica. La guerra del petrolio al tempo della pandemia costa cara a tutti. «Giocare alla roulette russa sui mercati petroliferi può davvero avere conseguenze gravi, soprattutto in un momento come questo», è stato lo sconsolato commento del direttore esecutivo dell’Agenzia internazionale dell’energia Fatih Birol, secondo cui l’attuale disequilibrio fra domanda e offerta di greggio crea una situazione «senza precedenti nella storia».

With a combination of a massive supply overhang and a significant demand shock at the same time, the situation we are witnessing today seems to have no equal in oil market history.#THREAD

— Fatih Birol (@IEABirol) March 9, 2020 IL VERO BERSAGLIO DI MOSCA SONO GLI USA La guerra al ribasso è con i sauditi, ma il vero nemico contro cui la Russia l’ha scatenata è Washington. Gli Stati Uniti sono diventati il maggior produttore mondiale di greggio grazie al boom dello shale oil estratto dalle scisti bituminose, e redditizio solo se poi lo si vende ad almeno 40 dollari il barile. «Il bersaglio è lo shale Usa, che con questo deprezzamento potrebbe addirittura fermarsi», spiega a Lettera43 Viktor Katona, operatore finanziario del settore ed analista del Russian International Affairs Council. Negli ultimi anni, i produttori americani avevano beneficiato del sostegno ai prezzi garantito dagli accordi tra Mosca e Opec nel formato Opec+. E lo avevano fatto a sbafo: senza dover render conto a nessuno di quanti barili estraessero. Situazione perfetta per aumentare la loro quota di mercato. Da qui l’animosità di Sechin: «Il sistema Opec+ è un vantaggio preferenziale per gli Usa e quindi una minaccia strategica per lo sviluppo della nostra industria petrolifera», aveva scritto già un anno fa il numero uno della Rosneft a Putin, secondo quanto riportato dalla Reuters. Ma Sechin ha il dente avvelenato anche per altri motivi: gli Usa hanno imposto sanzioni alla Rosneft per il sostegno dato al regime di Nicolas Maduro in Venezuela, e ad un altro gigante russo del settore, la Gazprom, per la costruzione dell’oleodotto Nord Stream-2 che taglia fuori l’Ucraina dalle forniture all’Europa.

LA VITTORIA DI SECHIN Sechin è il più conservatore tra i confidenti di Putin. Non ha nostalgia del comunismo ma dell’impero sovietico sì. Ha spesso usato la Rosneft come arma contro i nemici veri o presunti della Russia. È considerato il “capo” dei siloviki, i personaggi dei servizi di sicurezza cooptati nella élite al potere. Forse è il secondo uomo più potente del Paese. Però ci ha messo un po’ a convincere il presidente a rompere con l’Opec. Altri pezzi grossi, ai vertici industriali e finanziari dello Stato, lo sconsigliavano. Con qualche ragione. I proventi dell’export di idrocarburi contano per circa la metà delle entrate fiscali russe. Per centrare gli obiettivi di bilancio, il barile deve costare almeno 45 dollari. La crescita del Pil russo, secondo alcuni economisti, dipende al 99% dal prezzo del greggio. Accettare i tagli produttivi indicati dal cartello e la concorrenza “sleale” dello shale americano per garantire la stabilità del mercato aveva molto senso. Inoltre, per Putin il patto con l’Opec era il tassello di un puzzle comprendente intese ad hoc con l’Arabia Saudita riguardo al conflitto in Siria e ad altre questioni politico-militari. Equilibri che adesso potrebbero saltare.

IL RISIKO DI MOSCA Probabilmente, al Cremlino si ritiene che Riad, anche se ha quasi il triplo delle riserve petrolifere della Russia, non reggerà al braccio di ferro e finirà per ridurre unilateralmente la produzione stabilizzando i prezzi. Nel frattempo, molte aziende dello shale saranno fallite, e la Rosneft avrà riconquistato quote di mercato agli statunitensi producendo senza i limiti imposti dal sistema Opec+. Paradossalmente, il rublo in caduta libera insieme ai corsi petroliferi dà all’azienda di Sechin un plus: «Per gli esportatori russi di gas e petrolio il rublo debole è una manna dal cielo, perché incassano in dollari o in euro», nota Viktor Katona. Ma davvero la Russia questa sua “guerra” può permettersela? «Sì e no: ha in parte superato le conseguenze della caduta dei prezzi petroliferi del 2014-2015, ed ha accumulato le maggiori riserve di sempre nella sua banca centrale, a costo però di una continua caduta dei redditi reali a causa della svalutazione del rublo», risponde l’analista. In uno studio del think tank moscovita Carnegie, l’economista Andrey Movchan sostiene che il Paese rischia «una lunga recessione», se non torna a trattare con i sauditi: «l’economia non cresceva neanche col petrolio a 60 dollari, il sistema pensionistico è in deficit, i redditi delle famiglie sono più bassi di otto anni fa, e le sanzioni in vigore le impediscono di ricorrere a prestiti dall’estero anche quando i prezzi del barile sono alti», scrive Movchan.

Un ufficio di cambio a Mosca. SOVRANISMO ECONOMICO CONTRO COVID-19 Mosca ha indicatori macroeconomici invidiabili: bilancio in surplus, forti riserve internazionali, debito basso. Alla “guerra” ci è arrivata preparata. A beneficio della stabilità dei conti, dal 2014 in poi il governo ha sacrificato la crescita e il miglioramento del tenore di vita dei cittadini. Ha perseguito un vero e proprio sovranismo economico cercando di sfilare la Russia dall’economia globale al fine di minimizzare i danni di eventuali nuove sanzioni e rafforzare i suoi settori industriali. Contando così anche di mettersi al riparo dalle turbolenze dell’economia internazionale. Lo tsunami scatenato dal coronavirus, però, appare troppo devastante per risparmiarla. Da porto sicuro, la Russia potrebbe diventare un anello debole, come durante la recessione globale del 2009 e durante la crisi anti-ciclica del 2015, avverte uno dei maggiori economisti del Paese, il direttore del Centro studi post-industriali Vladislav Inozemtsev.

ACCELERAZIONE AUTORITARIA Putin si è preso un bella responsabilità nei confronti dei russi e del mondo, nello scatenare la ”guerra del petrolio” in questo momento. E non si può non rilevare come la mossa faccia parte di un’accelerazione con la quale Mosca si allontana ulteriormente dall’Occidente e cerca l’arrocco economico più opportunista. Mentre in politica interna sembra consacrarsi per gli anni a venire ad un autoritarismo di tipo quasi orientale: nelle stesse ore in cui il pianeta veniva attanagliato dall’angoscia per il Covid-19, i mercati finanziari sprofondavano e iniziava la ”roulette russa” petrolifera, Putin faceva passare dal suo parlamento una norma che gli consentirà di rimanere al Cremlino all’infinito o quasi – nel caso lo voglia. Per tornare a un modello politico-istituzionale di tipo europeo, semmai, ci vorrà almeno una generazione. Al tempo della pandemia, tra gli uomini del presidente hanno vinto i Sechin. E la Russia diventa più tartara.