Il Messaggero, 21 marzo 2020
Il paragone sbagliato con Churchill
Quando, alcuni giorni fa, Boris Johnson annunciò la sua strategia contro il coronavirus, consistente nel lasciar libero corso all’epidemia, eliminando i deboli e immunizzando i superstiti, pensammo perplessi che il primo ministro si fosse uniformato al giudizio di Cassio nel Giulio Cesare di Shakespeare: «He that cuts off twenty years of life, cuts off so many years of fearing death». Chi ti toglie vent’anni di vita, ti toglie altrettanti anni di paura della morte. Non sarà un grande conforto, ma, almeno per i depressi ipocondriaci, non è del tutto sbagliato: ed infatti molti di loro si suicidano. Altra cosa è tuttavia applicarlo agli ultrasettantenni che, pur con i fastidiosi inconvenienti della senilità, non hanno alcuna intenzione di lasciare questa valle di lacrime.
LE OPINIONI
La nostra perplessità è tuttavia aumentata quando abbiamo ascoltato alcune autorevoli opinioni di nostri connazionali che, vivendo in Gran Bretagna, o piccandosi di conoscerne bene gli abitanti, hanno convenuto che il biondo Boris non aveva fatto altro che interpretare il carattere dei suoi connazionali: solido, realistico, disciplinato, alieno da emozioni infantili. Insomma, arrivi pure l’epidemia, faccia quello che deve fare, e tutto continui regolarmente. Chin up, e business as usual: l’intasamento degli ospedali non ci sarà e la selezione naturale farà il resto.
Questa perplessità si è però convertita in dolorosa sorpresa quando, per avallare tale rude strategia, è stata evocata la venerabile figura di Winston Churchill, che noi tanto amiamo come salvatore della civiltà occidentale dal demonio nazista. Perché questa assimilazione? Perché anche sir Winston, nell’ora più buia, aveva promesso solo «blood, tears toils and sweat», cioè lacrime sudore fatica e sangue. Lo stesso concetto, si disse, espresso dall’eccentrico leader inglese. E qui abbiamo sospettato che a qualcuno fosse scappata, come si dice, la frizione.
Boris Johnson ha scritto un’interessante biografia di Churchill, che noi abbiamo qui recensito nel marzo di tre anni fa, anche se il libro è poco noto perché mai tradotto in italiano. L’autore dimostrava una buona conoscenza del suo illustre predecessore, anche se alcuni giudizi sulla visione europea di Churchill ci sembravano opinabili, o del tutto errati. Ma dopo la sortita sull’epidemia, ci è venuto il dubbio che – con tutto il rispetto per la sua alta carica – Johnson non abbia capito il virus, o non abbia capito Churchill, o non abbia capito nessuno dei due.
Sul Covid-19 c’è poco da commentare. Lasciandolo correre per raggiungere la cosiddetta immunità di gregge con il 60 per cento dei contagiati (come prevede Johnson), la Gran Bretagna avrebbe oltre trenta milioni di positivi, con tre milioni di ricoverati, di cui un terzo in terapia intensiva, e almeno mezzo milione di morti. Queste sono, più o meno, le statistiche ormai consolidate. Ora, noi possiamo anche ammettere che quel coraggioso Paese sopporti un simile numero di deceduti, e che anzi trattandosi per lo più di anziani e improduttivi pensionati, la previdenza sociale ne tragga largo vantaggio. Ma tre milioni di ricoveri, che toglierebbero il posto agli altri ammalati, non se li può permettere nessuno, se non a rischio di una rivolta anche in paese flemmatico come la Gran Bretagna. Che peraltro, ricordiamolo, tanto flemmatica non è, visto che anticipò di un secolo e mezzo la rivoluzione francese decapitando un sovrano, e qualche anno dopo rischiò l’esplosione del Parlamento con la congiura delle polveri.
EMOTIVITÀ
E veniamo a Churchill. Era un uomo di spiccatissima emotività, facile alle lacrime e agli sbalzi di umore; la sua energia indomabile derivava proprio dalla necessità di vincere il suo cane nero, la depressione che lo affliggeva quando non aveva qualcosa di importante da fare. In un interessante saggio, lo psichiatra Anthony Starr definisce questi swings of mood (cambi di umore) come un cyclothymic temperament: una sindrome comune a molti geni come Schumann, Hugo, Tolstoj e, tra di noi, il presidente Cossiga. Ma oltre a non essere né freddo né impassibile, Churchill era tutto tranne che rassegnato. La sua evocazione delle lacrime e sangue era esattamente l’opposto di quella prospettata da Johnson. Era contestuale a quella, di biblica solennità, ad armarsi ed essere uomini di valore a sua volta complementare all’altra (mutuata in parte da Clemenceau e dal nostro Garibaldi): che tutto il mondo conosce: «We shall fight in the beaches, we shall fight in the landing grounds.. we shall never surrender». Insomma un appello a raccogliere le forze e ad affrontare gagliardi il nemico, e non certo ad aspettare che le cose si risolvano da sole. Mentre questo è – o era – il messaggio di Johnson: lasciate che Hitler (il virus) invada pure il Paese, poi capirà che noi inglesi siamo più forti di lui, e se ne andrà sconfitto. Un concetto che farebbe rivoltare il povero Winston nella tomba.
VOLTAFACCIA
Senonché, sopraffatto dagli eventi, Johnson ha cambiato idea. E in questi ultimi giorni si è orientato, con più cauto giudizio, ad adottare provvedimenti più restrittivi. Poiché, quando questo articolo sarà pubblicato, il biondo premier avrà forse mutato ancora indirizzo, l’unico commento che possiamo fare è quello stesso che proprio Churchill appioppò a Stanley Baldwin, suo imbelle e rassegnato predecessore, che riportiamo in originale perché l’inglese latineggiante di sir Winston ci dispensa dalla traduzione. «Decided only to be indecise, resolved to be irresolute, solid for fluidity, all-powerful to be impotent». Un ditirambo di ossimori che, una volta tanto, fa sentire noi italiani più bravi, più disciplinati, e perché no, anche più intelligenti dei nostri sussiegosi amici d’oltre Manica.
RINASCIMENTO
E Churchill? Starebbe sicuramente dalla nostra parte. Non solo perché mai e poi mai si sarebbe arreso a un virus così aggressivo, ma perché la sua intima natura era più vicina alla nostra che a quella del suo biografo e successore. Perché Churchill, benché si definisse metà americano e interamente inglese, è stato l’ultimo dei nostri grandi signori rinascimentali: amava la pittura e i nostri paesaggi mediterranei, si alzava tardi la mattina. Era un buongustaio, a tavola beveva soltanto vino e dopo pranzo si concedeva sempre una salutare pennichella. Forse, a differenza di Johnson, aveva una lontana discendenza italiana.