il Fatto Quotidiano, 21 marzo 2020
Quei 40 milioni per gli sprechi Rai
“Gestire il servizio pubblico con le logiche della società del mercato, che tende a monetizzare tutto, sarebbe la sua negazione”
(da Ricostruiamo la politica di Francesco Occhetta, Edizioni San Paolo, 2019 – pag. 117)
Nell’arco di 24 ore, fra martedì e mercoledì scorsi, la Rai ha perso 40 milioni di euro. L’articolo 78 contenuto nella bozza del “decreto Covid-19” e intitolato “Contributo per il sostegno della Radiotelevisione Italiana SpA”, è stato sostituito all’ultimo momento con un nuovo testo che reca “Misure in favore del settore agricolo e della pesca”. Quei 40 milioni erano stati previsti per “mitigare gli effetti economici negativi derivanti dalla parziale sospensione del canone di abbonamento”, a causa del rinvio per il pagamento delle bollette, “oltre che dal prevedibile rilevante calo degli introiti pubblicitari per il servizio pubblico radiotelevisivo a seguito dell’emergenza sanitaria”. Ma, a quanto pare, un veto dei Cinquestelle ha imposto l’abrogazione di questo obolo che – a onor del vero – con la lotta all’epidemia c’entrava poco o niente.
Il fatto è che quei fondi alla Rai spetterebbero in forza della legge di Bilancio 2019, con cui il ministero dello Sviluppo economico ha previsto un contributo “una tantum” di 40 milioni a favore dell’azienda, sia per l’anno scorso sia per quest’anno, incagliato finora nelle procedure burocratiche. Ma come?! Mamma Rai non incassa già il canone d’abbonamento, pari a un miliardo e 770 milioni di euro, oltre ai ricavi da pubblicità (650 milioni), per un totale di 2,694 miliardi? E ancora non le bastano?
No, non le bastano. Tant’è che nel bilancio di previsione 2020 risulta un “rosso” di 65 milioni, al netto del contributo una tantum, in mancanza del quale il deficit salirebbe quindi a 105. E non le bastano per sostenere le spese e gli sprechi che continua a fare; i costi del personale (più di un miliardo per oltre 13mila dipendenti) e quelli esterni complessivi (1,153 miliardi), per diritti, appalti e contratti.
Ma alla Rai il canone non basta anche perché fin da quando è stato inserito nella bolletta elettrica il governo (a partire da quello di Matteo Renzi) con una mano dà e con l’altra toglie. Ridotto nel 2016 il costo dell’abbonamento da 113 a 90 euro all’anno, e poi “congelato” dalla legge di Bilancio 2019, alla Rai viene sottratto un “extragettito” di circa cento milioni l’anno che in buona parte confluisce nella fiscalità generale. Una specie di prelievo forzoso, insomma, che riduce all’83% i ricavi del canone, riportandoli in pratica ai livelli precedenti, se non inferiori.
Naturalmente, tutto ciò non giustifica la malagestione. Ma fornisce all’azienda un alibi per continuare a spendere e spandere, rivendicando un credito nei confronti dello Stato che coprirebbe almeno in parte i “buchi” di bilancio. La logica e la trasparenza imporrebbero invece di utilizzare i ricavi del canone esclusivamente a fini di servizio pubblico, in modo da garantire l’identità e l’autonomia della Rai.
Occorrerebbe, dunque, una rigorosa spending review, un’opera di pulizia e di moralizzazione, per consentire al servizio pubblico di rispettare i suoi compiti e le sue responsabilità istituzionali. A cominciare dall’informazione – imperniata magari su un canale all news, come già progettava l’ex dg Luigi Gubitosi – che resta la sua ragion d’essere. Ma molto c’è da fare anche nel campo dello spettacolo. E perciò, merita di essere segnalata la proposta del consigliere d’amministrazione Riccardo Laganà, eletto dai dipendenti Rai, per ridurre i costi di produzione e in particolare quelli relativi ai contratti di collaborazione editoriale e artistica.