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 2020  marzo 21 Sabato calendario

Intervista a Paolo Fresu

La petizione ha l’hashtag #velesuoniamo. Detto in senso pacifico, perché di gente che suona si tratta. Quando si muove Paolo Fresu, il trombettista pasionario del jazz che inventò l’annuale concerto benefico per L’Aquila, c’è sempre una causa che vale la pena. 
Questa volta, in tempi miserandi per tutti, per le tragedie sanitarie ma pure per i soldi che non si guadagnano, anche i musicisti tirano la cinghia: non le star come lo stesso Fresu, o Rava o Bollani, che passano da un continente all’altro come saette. No, sotto stress economico sono i musicisti che suonano episodicamente ma non per questo con meno expertise: vedono evaporare le scritture per i festival, i concerti di primavera e forse estate, fotografano le porte chiuse dei jazz club: i loro piccoli templi. Di questo parla la petizione lanciata in questi giorni al Governo, al Mibact (ministero per i Beni e le attività culturali e per il turismo), all’Inps e al ministero del Lavoro. Si vuole sanare una situazione che non è davvero più procrastinabile. 
La leggenda ha propagato centinaia di storie di jazzisti con le toppe nelle braghe ben prima che fossero di moda. Uno per tutti Louis Armstrong, nipote di schiavi, che a New Orleans cercava di aiutare la mamma, prostituta per necessità, raccogliendo carta e vendendo resti di cibo ai ristoranti (pensa che ristoranti). Situazione estrema per un genio estremo, che finì per fortuna in riformatorio dove imparò a suonare la cornetta nella banda. I tempi cambiano, ristrettezze diverse sono fra noi. 
Paolo Fresu, lei è il presidente della Federazione del jazz italiano.
«È nata 3 anni fa. Il jazz italiano è una realtà che ci invidiano in tutto il mondo. Ma siamo un mondo di singoli, di piccole etichette coraggiose. Con la prima nata dalla Federazione, l’esperienza dell’Aquila, abbiamo scoperto che non è poi musica di nicchia. C’è una filiera, musicisti, jazz club, studi, insegnamento, master class. Abbiamo firmato una convenzione con Dario Franceschini. Mai prima il jazz era entrato in un ministero». 
Cosa vede in fondo al tunnel dell’enorme crisi?
«Ora in qualunque ambiente è un guaio, ma penso che poi ognuno si rialzerà con tempi che dipenderanno da noi e dal buon governo, e a un certo punto la crisi finirà». 
Chi vuole aiutare con la petizione?
«Il mondo degli artisti intermittenti, bravi professionisti che si accendono e si spengono secondo il lavoro che c’è. Quando si accendono, cioè lavorano, pagano per lo stato sociale, versano i loro contributi. Ma in questo momento, essendo tutti a casa, la maggior parte è alla canna del gas. Le star nel mondo della musica sono il 3 per cento, il resto è senza protezione. Bisogna risolvere oggi, altrimenti non si risolverà mai. L’artista non deve sempre soffrire. Siamo privilegiati perché amiamo il nostro lavoro, ma se non sei famoso non hai né aiuto né protezione. Einstein diceva: è nei momenti di vuoto che nascono le cose nuove. In Francia ci sono "les intermittent du spectacle", hanno una legge secondo la quale, con più di 42 prestazioni l’anno, c’è una sorta di indennità. Basterebbe fare come loro».
La musica pop si è organizzata. A concerti chiusi, gli artisti suonano in streaming, dai loro studi, mettono insieme le forze.
«Ma guardi che il problema coinvolge il pop, la classica e tutto il resto. È un mondo di lavoratori a tempo determinato. Saranno 400 mila: percentuale apparentemente piccola ma muove un’economia importante. Prima dell’ultima chiusura, avevamo già perso 8 milioni. Il ministro Franceschini concorda sui bisogni, ma occorre il sì di Lavoro e Finanze. Speriamo che la petizione serva a metterci tutti insieme, c’è bisogno di cavalcare gli stessi sogni».
È ancora valida la leggenda del jazzista che fa più fatica a campare rispetto ai colleghi di altre musica?
«Ho lavorato con Ornella Vanoni, con Daniele Silvestri, Niccolò Fabi, Max Gazzè, e credo che nel pop girino molti meno danari rispetto a prima. I Jazz Club sono posti piccoli e vessati, e molti di noi si sono inventati insegnanti. Ci sono scuole, si studia jazz nei Conservatori grazie al mitico Giorgio Gaslini. Pensi che, enfatizzando una remora atavica, e cioè che il jazz era la musica del diavolo, io fui cacciato perché un professore scoprì che suonavo jazz. Ora ci sono seminari, corsi estivi, università pareggiate, scuole private. Musicisti e concertisti debbono essere tutelati».
Il jazz è di moda fra i giovani? 
«Settimane fa ero in concerto a Stoccolma e il teatro era strapieno di settantenni. I più giovani seguono un diverso idioma: elettronica, dub. Difficile dire quale pubblico sia. Molti jazzisti fanno anche i turnisti nel pop. Ho parlato con Jovanotti, Paola Turci, Daniele Silvestri, Renato Zero: stiamo pensando di raccogliere tutte le problematiche».
Nell’infuriare della pandemia, gli italiani cantano sui balconi, la sera, per tirarsi su.
«Non si può vivere senza musica, che mette insieme le persone, e quindi è giusto che sia sempre con noi. E queste battaglie si vincono solo restando uniti».