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 2020  marzo 21 Sabato calendario

Intervista a Maurizio Pollini

Si possono fare definitivamente i conti con Ludwig van Beethoven? Naturalmente no, come avviene quando si fronteggia l’opera di uno di quegli artisti il cui lascito per l’umanità è incommensurabile e quindi inesauribile. Certo però questo tormentato 2020, in cui cadono i 250 anni dalla sua nascita, può costituire un’opportunità preziosa per esplorare ancora lo sviluppo di una poetica musicale metastorica come quella beethoveniana.
Il pianista Maurizio Pollini viaggia da molti anni in tale direzione, senza necessità di farsi sollecitare dagli anniversari. Lo dice con la sua riconoscibilissima voce baritonale, durante la nostra conversazione: «Beethoven non ha bisogno di fasi celebrative. È sempre presente nella vita musicale e nel nostro entusiasmo». Ma poi fa una concessione: «Comunque quest’anniversario può essere un’ulteriore occasione per ascoltarlo e ripensarlo».
Da parte sua Pollini lo ha fatto subito proponendo un nuovo disco (Deutsche Grammophon) con le ultime tre Sonate di Beethoven, la op. 109, del 1820, la op. 110, del 1821, e la op. 111, del 1823 (Beethoven muore nel ‘27). Tre brani la cui forza dirompente, sia nella rabbia che nella dolcezza e nell’inesorabile malinconia, sa proiettarci in orizzonti metafisici, oltre che sperimentali dal punto di vista linguistico. Pollini li ha incisi nell’autunno scorso all’interno dell’Herkulessaal di Monaco, celebre per la sua acustica superba, dov’è stato realizzato il progetto dal vivo.
Uscito a fine febbraio, l’album è entrato in pochi giorni — infilandosi con regalità in mezzo a titoli pop e rock — nella Top 100 dei dischi più venduti (Top of the Music FIMI-Gfk). È un risultato clamoroso per un prodotto di classica. Il concerto di Monaco, ripreso dalle telecamere, si tradurrà in una delle rarissime uscite audiovisive (Dvd e Blu-Ray) del più leggendario e schivo tra i pianisti.
«Nel corso della mia vita professionale, cioè di un itinerario lungo quasi sessant’anni, ho registrato tutte le 32 Sonate di Beethoven e le ho proposte molte volte in concerto, scoprendo sempre nuove ricchezze nei dettagli», racconta.
«Per me adesso era decisivo tornare sulle ultime Sonate, che incisi per la prima volta più di quarant’anni fa. Mi premeva ripercorrerle dopo tanto tempo e con idee nuove. Qui Beethoven s’allontana dalle forme convenzionali muovendosi in episodi che paiono traduzioni dirette del suo sentimento soggettivo».
Il suo disco sembra evidenziare gli aspetti di queste tre Sonate più trascendentali.
«Si è detto spesso che la chiusa della 111 contiene quasi un presentimento della sua morte. Io invece credo che Beethoven non pensasse alla fine della propria parabola, e avesse in mente molte altre composizioni».
Quando scrisse le sue ultime Sonate, Beethoven era afflitto da disturbi dell’udito, da gravi difficoltà e da una progressiva chiusura in sé stesso. Proviene anche da tutto ciò la sostanza meditativa di questi brani?
«Beethoven ha avuto un’evoluzione inarrestabile e tutte le sue ultime composizioni — Sonate, Quartetti, Nona Sinfonia, Missa Solemnis — riflettono un’audacia straordinaria. In lui le novità si generavano spontaneamente, con un’ostinata urgenza di compiutezza. Scrisse la Nona Sinfonia tre volte per intero, ogni volta modificandola. Nel suo ultimo periodo divenne modernissimo, profetico. Basti pensare alla Grande Fuga op. 133, composizione per quartetto d’archi, che Stravinskij considerava il pezzo più attuale in assoluto. È una delle opere più emblematiche del tardo stile beethoveniano per il radicalismo del suo linguaggio».
Di Beethoven lei studia da sempre possibili intenzioni, accenti, sfumature dinamiche, tempi metronomici. Questi vanno seguiti alla lettera?
«Beethoven ha scritto indicazioni metronomiche per la Sonata 106, per tutte le Sinfonie e per gran parte dei Quartetti. Quando mancano, possono esserci opinioni diverse. Da giovane seguivo alla lettera le indicazioni beethoveniane, poi ho smesso di farlo, pur rispettandone le proporzioni e continuando a cercare di rimanere vicino a quanto lui ci ha lasciato scritto.
Non si può prescindere dalle idee dell’autore, per quanto strane. È il caso della Nona Sinfonia beethoveniana, coi suoi tempi rapidissimi. Stravinskij e Verdi hanno lasciato agli interpreti indicazioni pressoché perfette sulla loro musica, ma non così hanno fatto altri autori. Chopin ha dato indicazioni imperfette sulle sue prime composizioni, e poi non ha mai più messo un metronomo in vita sua».
Fedeltà o libertà dell’interpretazione? Domanda troppo schematica, certo. Ma ammetterà che nel pianismo la scelta fra i due poli è centrale.
«Un atteggiamento di fedeltà alle indicazioni date dal compositore è necessario, ma c’è sempre uno spazio imponderabile nel quale si determina l’identificazione dell’interprete col creatore.
Cercare quello spazio è il nostro lavoro: cammino arduo da spiegare, scandito da una ricerca assidua e tenace».
Nel patrimonio delle Sonate beethoveniane lei rintraccia ancora affinità con autori quali Haydn e Mozart?
«Si pensa troppo che il primo Beethoven sia legato a Haydn e a Mozart: non sono d’accordo.
All’inizio Beethoven riprese spunti dai compositori precedenti, ma è stato immediatamente sé stesso, per poi mettersi presto a compiere passi da gigante. Ha una propria energica personalità dalle prime creazioni, e per esempio la presenza di grandi contrasti è una costante beethoveniana dal principio. Nelle tarde composizioni si accentua, ma è nella sua natura sin dall’avvio».
Esempi di contrasti?
«Nell’ultimo tempo dell’op. 110 assistiamo al divenire tra stati d’animo opposti, e nell’op. 111 il senso più profondo e misterioso della composizione è dato dalla relazione tra il tragico primo movimento e l’Arietta con variazioni».
In omaggio a Kant, Beethoven scrisse che, con la sua opera, voleva confortare "l’umanità in catene"...
«Kant è stato importantissimo per Beethoven. Nei suoi quaderni di conversazione, il musicista riportò e sottolineò, aggiungendo tre punti esclamativi, una frase di Kant: "La legge morale in noi e il cielo stellato sopra di noi." Trovo suggestiva, benché non documentabile, l’ipotesi di associare queste parole alla quarta variazione dell’Arietta della op. 111 ».
In ogni suo concerto è ben percepibile la tensione in sala. È come se l’incontro tra pianista e pubblico fosse qualcosa d’irripetibile, e si vivesse insieme la potenza dell’istante musicale.
Ora sono stati chiusi teatri e sale da concerto (lei era atteso fra l’altro alla Scala e a Roma per Santa Cecilia, tutto rinviato), e si moltiplicano le iniziative per l’ascolto di esecuzioni, anche in tempo reale, tramite dispositivi in rete. Si può immaginare nel futuro l’evento del concerto senza più corpi ravvicinati immessi in spazi rituali?
«Spero assolutamente nella continuità della presenza fisica del pubblico nelle sale, fondamentale anche per chi suona. Quella fra l’interprete e la sala piena di persone è una confluenza che dà un carattere particolare ad ogni esecuzione: può sostenerla e nutrirla. Sia quando studio a casa sia quando suono in pubblico, io lavoro sul rinnovo della comprensione dell’opera, e ciò provoca una tensione che credo si trasmetta direttamente al pubblico».