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 2020  marzo 21 Sabato calendario

Amori e odi di Manganelli “l’incompetente”

Moltissimi anni fa lavoravo, insieme a Giorgio Manganelli, per l’editore Garzanti, a Roma, vicino a piazza San Silvestro. Lui insegnava letteratura inglese negli istituti tecnici superiori, in una scuola lontana, oltre Monte Sacro. Amava i luoghi lontani, nascosti, inattingibili, perché anche lui era una persona sovranamente lontana e nascosta. Poi, all’improvviso, abbandonò la scuola, con un senso acutissimo di liberazione; e diventò assistente del delizioso Gabriele Baldini, professore di letteratura inglese all’università, che amava la musica classica come lui – e, soprattutto, il vino, che aveva colorato di un rosso acutissimo il suo volto e, soprattutto, il suo splendido naso.
La nostra amicizia letteraria cominciò per caso. Un giorno – credo nell’autunno del 1964 – ero seduto nel vasto ufficio di Livio Garzanti – che fu, per noi, tanto delizioso quanto odiosissimo – e lentamente, pavidamente, timorosamente, Giorgio Manganelli salì le scale con un libro in mano. Non ho mai visto una persona più inquieta e perplessa, come se la sua vita dipendesse, chissà perché, dalla mia. Allora si occupava del reparto inglese della casa editrice. Leggeva libri inglesi, traduceva, controllava le traduzioni, dava consigli, accettava consigli, con uno scrupolo e una precisione e una attenzione, che portò con sé per tutta la vita, come un cappotto, il cappotto di Gogol. Aveva strani mantelli e strani cappelli, che sembravano appartenere a un’epoca sorpassata da moltissimo tempo.
Come me, tra gli scrittori italiani, adorava Carlo Emilio Gadda: Il pasticciaccio era, per lui, un libro inattingibile, che non poteva raggiungere o corteggiare nemmeno in sogno. In qualche pagina – rara – lo imitò: si sentiva lombardo, se non milanese come Gadda. La sua cultura inglese era eccellente: sapeva quasi tutto: da Chaucer a Shakespeare, agli elisabettiani, a Sterne, a Poe, a Dickens, a Henry James, a Stevenson. Quanto agli italiani, era amico di Attilio Bertolucci, traduttore di Thomas Hardy e di Yeats – di Giorgio Caproni, di Augusto Frassineti e, naturalmente, di Mario Praz, di cui invidiava la cultura vastissima e stravagante. Anche lui era stravagante come e forse più di Mario Praz.
Manganelli abitava nei luoghi più strani e rari: che nessuno, o quasi nessuno, frequentava. Era sempre altrove: perché pensava che tutto, tutto – ogni centro – dipendesse dall’altrove. Per questo tradusse stupendamente tutto Poe, il quale abitava  in tutti i luoghi impossibili, quelli che nessuno osava frequentare. Prendete l’ultimo libro, uscito in questi giorni, Concupiscenza libraria (Adelphi), curato in modo eccellente da Salvatore Silvano Nigro.
Un solo scrittore italiano, Manganelli detestava: Pier Paolo Pasolini, autore di Ragazzi di vita e di Una vita violenta, e «di innumerevoli libri di poesia e di narrativa e di saggi e di film quasi tutti mediocri o pessimi, ma dotato di amicizie altolocate». Manganelli diceva che tutta quella vita che Pasolini ostentava, non era affatto vita: ma una cosa completamente diversa – la similvita, «un’abile macchinazione tecnica», come le automobili fabbricate dalla Fiat o dalla Lancia; e per questo lui non sopportava Ragazzi di vita con «quegli schifosi ragazzini».
Dopo quel giorno del 1964, per almeno venticinque anni, ci vedevamo spessissimo. Mi accorsi subito che, mentre io ero un mediocre critico letterario, che recensiva sui giornali i libri appena usciti, Manganelli non era affatto un recensore: nella sua vita non recensì un solo libro. Lui era un genio, semplicemente un genio. Il libro che quel giorno portava in mano si chiamava Hilarotragoedia l’aveva scritto lui; ed era un capolavoro, sebbene i critici del tempo non lo comprendessero o lo ignorassero o se ne dimenticassero. Ci vedevamo molto spesso. Non potevo andare a casa sua, perché, con l’aiuto di una donna incantevole, Ebe Flamini, grande scopritrice di verdure della Basilicata, cambiava casa quasi ogni giorno, con tutti i suoi libri, che erano moltissimi, e i suoi dischi di musica classica, che non erano pochi. Veniva molto spesso a casa mia, dove adorava mangiare uccelletti allo spiedo; e, appena mangiato, come se il cibo lo rattristasse o lo incupisse, girava rabbiosamente per il salotto, con un rapidissimo movimento rotatorio.
Insieme mangiavamo soprattutto in un ristorante toscano, vicino a Porta Pia. Mangiavamo: ma soprattutto parlavamo di tutte le cose del mondo e di qualche altra cosa. Quanto abbiamo chiacchierato: per almeno tre ore, fino a quasi mezzanotte, quando, con l’automobile, lo portavo in una delle sue molte abitazioni, da un estremo all’altro di Roma, da Monte Sacro, a Monte Mario. Sebbene ci conoscessimo da quasi trent’anni, ci davamo sempre del lei: un lei molto più affettuoso ed intimo di qualsiasi tu. Manganelli pretendeva di essere incompetente: perché, sosteneva, «lo scrittore è colui che è sommamente, eroicamente incompetente in letteratura. Come l’innamorato è colui che fra tutti gli uomini e le donne, ha ottenuto la grazia della totale incompetenza a proposito di amore». Era onnivoro. Leggeva di tutto, con una passione che di rado ho conosciuto: cose note e ignote, rare e comuni.
Per fare della letteratura – ma la letteratura non si fa, viene trovata e scoperta in uno dei tanti viottoli del mondo – bisogna distruggere il verisimile. Tutti, tutti, tutti i libri verisimili sono bruttissimi, come quelli di Alberto Moravia, i cui libri erano «i sogni ingegnosamente malati di un uomo sano». La letteratura stava tra gli opposti. Da un lato, come d’Annunzio, Manganelli aveva bisogno di lessici: senza quello del Tommaseo, non poteva nemmeno usare la penna o la matita, giacché si appropriava di tutti i libri. Ma lo scrittore è anche un’assenza, un vuoto, una negazione, una mancanza, una tenebra. Qualcosa che non esiste: o, al massimo, esiste come Robinson Crusoe; un naufrago che si avventura per caso in una isola deserta, di cui non conosce né uomini né rocce né alberi.
L’isola Robinson-Manganelli possiede un centro: ma questo centro era esploso, e lui non poteva ritrovare tutti i luoghi dispersi dell’immensa sfera caliginosa che avvolge il nostro io letterario e i nostri pensieri. Come una volta si diceva di Dio, il centro del libro stava dappertutto e da nessuna parte. Ma era sempre consigliabile cercarlo nei luoghi laterali, o addirittura nei luoghi cancellati, che nessuno riuscirà mai a trovare. La sua letteratura stava nell’ombra e nella tenebra. Abitava soprattutto nel male: il quale va però usato e controllato con estrema cautela, perché tende ad esplodere: nell’assassimo, così caro ad Eschilo: nella follia, così cara a Shakespeare; e nella mescolanza e nella giustificazione: in tutto ciò che provoca paura e spavento; e nelle finzioni e nelle mistificazioni, così care ad una scrittrice gotica come la Blixen.
La letteratura va cercata in tutto ciò che è acutamente e rozzamente fìsico, ma che, al tempo stesso, contiene una dimensione metafìsica, perché la metafìsica non esiste senza la fìsica, e la fìsica senza la metafìsica. La letteratura detesta la retta, e anche le complicazioni e il groviglio delle rette. Per questo Manganelli amava le cose sghembe, le cose che si muovono contemporaneamente in più direzioni, possibilmente nello stesso momento.
Amava le fanfaluche, come Silvia e Bruno di Lewis Carroll o il Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni, che piaceva anche a Federico Fellini; o quei luoghi adorabili dove il positivo diventa negativo e il negativo positivo.
Non saprei dire con precisione quali fossero i libri preferiti da Manganelli: secondo me, tutti quanti dovevano assomigliare alle Mille e una notte, e alle infinite forme che esse hanno assunto nel Medio Oriente e in Egitto. Manganelli era ubiquo, e multiforme. Per questo, a volte, sebbene fìngesse di essere cupo, o tetro, o assurdo, era sempre l’incantevole e irradiante Shéhérazade. Portava sempre con sé un profumo di Oriente, o talvolta di Cina – l’unico giusto profumo, l’unica giusta immagine, e soprattutto, l’ultimo giusto riso.