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 2020  marzo 21 Sabato calendario

L’Olimpiade perduta del 1940

La maledizione sembra essere tornata, a 80 anni di distanza. Come nel 1940, l’Olimpiade di Tokyo deve fronteggiare un destino che pare segnato, combattere contro un sortilegio negativo, un cigno nero sotto i ciliegi in fiore. Anche allora la minaccia partì dalla Cina, ma nulla a che vedere col coronavirus e la pandemia che mette oggi a repentaglio i Giochi. Al tempo decise invece la guerra, lo scontro scoppiato sul ponte Marco Polo, a Pechino, il 7 luglio 1937. Da una parte l’esercito di casa, dall’altro quello dell’imperatore Hirohito, impegnato da tempo in una politica imperialista gradita ai circoli militari e all’industria nipponica. Il secondo conflitto sino-giapponese, durato fino al settembre del 1945 e mai chiamato ufficialmente “guerra” dai ministri del Sol Levante, bensì solo “incidente”, pose fine alle Olimpiadi di Tokyo del 1940 prima ancora che cominciassero.
Quell’appuntamento resta certamente il più grande e doloroso annullamento nell’intera storia dello sport mondiale, con le gare di atletica leggera, nuoto, scherma e delle altre quindici discipline lasciate incompiute malgrado gli impianti già progettati. All’ultimo, dopo l’inevitabile rinuncia di Tokyo, registrata ufficialmente attraverso una lettera inviata nell’estate del 1938 ai componenti del Cio, tra cui il nostro Carlo Montù che molto si dispiacque per la decisione presa, si tentò frettolosamente di far traslocare i Giochi a Helsinki. Ma qui, di nuovo, sopraggiunse lo scenario di guerra a cancellare ogni incontro, in un’Europa ormai precipitata nel gorgo nazista. La Finlandia avrebbe ospitato i Giochi del ’52, il Giappone quelli del ’64.
Le Olimpiadi del 1940 a Tokyo dovevano essere le prime disputate in Asia. L’attesa era stata alta negli anni precedenti, accompagnata dalle decine di milioni di yen stanziati dal primo ministro, il principe Fumimaro Konoe, leader di un governo fortemente di destra. Tutto era stato pianificato nel dettaglio: 17 nuovi dipendenti al comitato sportivo, 33 alla gestione del nuovo stadio, 58 alla Commissione che si occupava delle attrezzature. Si erano finanziati lo stadio Olimpico da 100 mila spettatori, destinato a sorgere nei giardini di Komazawa, il nuovo velodromo da 15 mila sedute e l’impianto per il calcio, da due milioni di yen, già messo a bilancio. Si trattava di un lavoro minuzioso e perfettamente dettagliato, come dimostra il dossier presentato al Cio, che contiene materiale valido solo per gli storici e i collezionisti. Compreso il manifesto firmato dall’artista Sanzo Wada, con la sagoma stilizzata di un atleta intento al saluto romano. Fu ingaggiato anche Werner Klingeberg, l’uomo che si era occupato della logistica di Berlino ’36. Ma tutto fu inutile, vano, perché il 29 luglio 1938 il Paese annunciò di arrendersi. «Il popolo giapponese è profondamente dispiaciuto di abbandonare il progetto» scriveva il principe Iyseato Tokugawa, presidente del Comitato organizzatore, «ma l’incidente con la Cina richiede che le risorse siano spese su quest’ultimo fronte».
Finiva così quello che era stato il sogno occidentale dei giapponesi, il loro desiderio di affiancare le maggiori potenze europee anche nello sport. Esattamente come oggi, con la fiaccola volata da Atene in Giappone, anche nel 1937 si progettò il lungo viaggio dall’Europa per accendere il braciere il 21 settembre 1940. L’edizione numero dodici delle Olimpiadi doveva pure sancire la potente espansione economica del Giappone, con una produzione industriale cresciuta dell’80% dal 1913 al 1920. Per queste ragioni e con questi numeri, il Giappone aveva convinto il Congresso del Cio tenuto nel 1936 durante i Giochi di Berlino a farsi consegnare la bandiera a cinque cerchi. C’è una foto, scattata alla vigilia di quell’Olimpiade all’Hotel Adlon, a due passi dalla Porta di Brandeburgo, che ritrae il presidente del Comitato olimpico, il conte belga Henri de Baillet-Latour, e il rappresentante giapponese Mishima Soyeshima, visibilmente rallegrato. Tutto era pronto per offrire al mondo la forte immagine del Giappone del 1940, nell’anno 2600 dalla fondazione dell’impero, ma non ci fu né modo, né soprattutto tempo. Sarà per questa recondita paura che Tokyo non vuole sentire nemmeno discutere dell’inizio fissato il prossimo 24 luglio.