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 2020  marzo 21 Sabato calendario

Intervista a Niccolò Ammaniti

Quando tutto si è fermato, a terra c’erano sei corpi circondati da uomini armati con tute e mascherine. Il set è un cortile di Palermo dove è allestito un ospedale da campo, da una parte i malati consumati dal virus ricoperti di farina, dall’altra l’esercito. Scene da una fiction. Niccolò Ammaniti stava girando un episodio della serie tv tratta dal suo ultimo romanzo Anna quando è arrivato lo stop: basta riprese. «L’epidemia dilagava in Cina, continuavamo a girare, sembrava distante. Invece nell’arco di poche ore le cose si sono ribaltate». Per chi ancora non lo avesse letto, il romanzo racconta di un mondo post-virus e delle reazioni dei sopravvissuti all’epidemia sconosciuta che uccide solo gli adulti e salva i bambini. La serie, nella quale Ammaniti per la seconda volta dopo il successo del Miracolo si mette alla prova come regista, andrà in onda su Sky, previste otto puntate.
Nel frattempo lo scrittore è tornato a Roma e come tutti vive chiuso in casa. Ci sentiamo per telefono, niente Skype, solo voci. In genere Ammaniti è più ritroso, stavolta ha voglia di chiacchierare: «Il virus ci ha ricordato che in fondo non siamo altro che filamenti di dna, ci ha costretti a riprendere contatto con le nostre fragilità».
Crede che usciremo da questo incubo più forti?
«Quello che stiamo vivendo ci porterà a rimettere in gioco le condizioni di esistenza che davamo per scontate. La clonazione, le tecnologie più avanzate, ci facevano sentire degli dèi. Poi è arrivato il virus e improvvisamente siamo tornati animali, esseri biologici che si ammalano e muoiono e che devono fare i conti con la paura, qualcosa che credevamo di aver superato, appartenente a epoche passate, e che la modernità ci aveva illuso di aver rimosso. Di colpo ci siamo ricordati che siamo fatti di cellule e carne».
E questo è un bene, può servire a ridimensionarci l’ego?
«Ci aiuta a guardare diversamente le nostre ossessioni».
Le sue quali sono?
«Sono ossessionato dal lavoro, considero poco altro. E invece ora per la prima volta lavorare mi sembra secondario, sento che ci sono cose più importanti, chiamo gli amici su Skype, ho bisogno della loro vicinanza. Per me non è usuale, in genere tendo a isolarmi».
Immaginava quando ha scritto "Anna" di ritrovarsi a vivere se non proprio la stessa situazione qualcosa che le si avvicina molto?
«Mentre giravo la serie in Sicilia sono finito dentro a un paradosso, la realtà prendeva il posto della fantasia, si stava avverando la trama che avevo immaginato. Da romanziere sono attratto dagli scenari negativi, dai personaggi sofferenti, ma nella vita non è così. La verità è che quando la realtà prende il sopravvento diventa più importante di qualsiasi altra cosa. È la prima volta che mi trovo a vivere una situazione del genere in cui la salvaguardia di me stesso e degli altri, della famiglia, degli amici, della popolazione, diventa una priorità rispetto a tutto il resto. Il virus ha reso irrilevante quello che fino a quel momento mettevo in primo piano».
Vivere chiusi in casa non è facile.
Nei suoi libri, da "Io non ho paura" a "Io e te" fino a "Anna", ha immaginato bambini che vivono dentro fossi nel terreno, cantine, sgabuzzini. Perché la attraggono le condizioni di reclusione?
«La chiusura rimanda all’infanzia, i bambini ne sono meno spaventati perché al chiuso spalancano le porte all’immaginazione. Il virus in fondo ci sta dando un’opportunità: ridiventare un po’ bambini, riscoprire la fantasia, rimetterla in gioco, guardare le nostre case in modo diverso. In questi giorni gli oggetti che mi hanno sempre circondato mi appaiono sotto una luce nuova. Trovo fogli abbandonati, cose che avevo dimenticato, riapro vecchi cassetti e ci frugo dentro, riguardo vecchie foto. Ne parlavo l’altro giorno al telefono con mio padre (lo psicoanalista Massimo Ammaniti, ndr ), anche a lui sta succedendo la stessa cosa, è come se avessimo bisogno di riconnetterci con il nostro passato».
Nessuna voglia di fuga?
«Sto a casa, è giusto così, non esco mai. Cucino come un pazzo, mi abboffo di libri, serie e cibo. Ogni tanto un po’ di tapis roulant. Per il resto faccio i conti con me stesso, come tutti».
Anna, la bambina protagonista del romanzo, cerca però di fuggire.
«Coltiva la speranza di superare il male, di oltrepassare la striscia di mare che separa la Sicilia dalla Calabria perché vuole dimostrare che c’è qualcosa oltre l’orrore che la circonda».
Come si fa a tornare bambini in mezzo a tanto dolore?
«Nutrendo l’immaginazione, leggere aiuta a staccarsi dal flusso delle notizie sul virus, a sentirsi meno tigri in gabbia».
Cosa consiglierebbe?
«Romanzi che raccontano mondi lontani come L’isola del tesoro di Stevenson o Il conte di Montecristo di Dumas».
Stanno vendendo molto "La peste" di Camus e "Cecità" di Saramago. Gli scrittori hanno capacità profetiche?
«Da scrittori si è interessati alle dinamiche più nascoste, quindi può accadere di anticipare gli avvenimenti. Ma non parlerei di virtù profetiche: le cose sono già tutte presenti nel tessuto della realtà».
Margaret Atwood sostiene che le sue storie non sono tanto distopie quanto ingrandimenti di dettagli del nostro mondo.
«È proprio così, sono trame che stanno all’interno del grande tappeto dell’esistenza. Gli scrittori riescono a vedere i fili più nascosti».
Trasformerà l’esperienza coronavirus in un nuovo romanzo?
«È rischioso, per scrivere bisogna recuperare la distanza, andare oltre la cronaca. Potrei raccontare di una coppia che si sta per lasciare e rimane intrappolata dentro una casa, costretta a odiarsi senza la possibilità di uscire. Ma sarebbe troppo facile» (ride) .
Quale sarà il finale dell’angosciosa cronaca che stiamo vivendo?
«Sconfiggeremo il virus, possiamo farlo, e in futuro racconteremo che c’eravamo e che questa storia ci ha spinti a cambiare».