il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2020
Intervista a Gian Arturo Ferrari
In Se una notte d’inverno Calvino dice che la lettura è, assai più della scrittura, un atto necessariamente individuale. Affermazione che abita perfettamente i nostri spazi ristretti e i tempi dilatati. Per parlare di libri ritrovati abbiamo interpellato un Ragazzo italiano, titolo dell’ultimo romanzo di Gian Arturo Ferrari, tra i dodici stregati di quest’anno. “Sono consigli o preferenze?”, chiede il professore (era il suo storico soprannome in Mondadori).
Preferenze, di consigli ce ne sono fin troppi.
Vorrei cominciare con quello che io considero il capolavoro di Ernest Hemingway, La breve vita felice di Francis Macomber. Uno dei 49, il più bello. La storia, ambientata in Africa, è quella appunto di Francis Macomber, un ricco signore americano che sta partecipando a una battuta di caccia con un cacciatore bianco e la bella giovane moglie al seguito. Lui è un codardo, un uomo che ha paura. A un certo punto compare un leone e lui davanti al cacciatore e alla moglie fa una tremenda figura. Quella notte stessa la moglie lo tradisce con il cacciatore, che invece è un uomo coraggioso e spavaldo. Il giorno dopo, durante la caccia, arriva un bufalo imbizzarrito. Francis Macomber smette di tremare, imbraccia il fucile e lo uccide. Così esce dalla sua prigione di impotenza. La moglie se ne accorge e…
…non vale raccontare la fine!
Diciamo che c’è un epilogo tragico. Ma è scritto in una maniera meravigliosa, perché Hemingway era un superbo stilista.
Secondo: un altro racconto?
Sì. Uno brevissimo, scritto nel primo dopoguerra da un signore che si chiamava Ezio Comparoni, ma che si firmava Silvio D’Arzo e che purtroppo morì giovanissimo, a poco più di trent’anni. Casa d’altri è stato definito da Montale “un racconto perfetto” e lo è effettivamente. È un gioiello puro, per chi ha il gusto della letteratura alta. Siamo nell’Appennino reggiano dove una donna anziana che non ha nulla più al mondo interroga il parroco, la voce narrante, per sapere se si può uccidere. Gira attorno ai temi che in quegli anni sarebbero diventati quelli dell’esistenzialismo francese. Casa d’altri perché tutto è casa d’altri: anche il titolo è meraviglioso.
Letture brevi.
Se vogliamo andare su dimensioni più impegnative, ho letto da poco Il cardellino di Donna Tartt, che avevo messo da parte quando era uscito. Mi è piaciuto tanto, ancor più di quel Dio di illusioni che ha fatto la fortuna della scrittrice americana. È un libro di grande respiro e pieno di invenzioni, a partire dal quadro che raffigura appunto il cardellino. Tutto è centrato sull’asse del personaggio e nello stesso tempo estremamente vario perché concentra sul protagonista angolature completamente diverse. Mi ha colpito la capacità di governo di una materia così complessa.
Un classico?
Vita e destino di Vasilij Grossman, che è il Guerra e pace del Novecento: ha la stessa vastità. Solo i russi hanno quell’afflato universale, quella capacità di vedere tutto. Lo ritengo uno dei tre grandissimi russi del secolo scorso, insieme al Dottor Zivago e a I racconti della Kolyma di Salamov. L’inizio è folgorante con il vecchio rivoluzionario che dice: “Io non credo più nel bene, credo nella bontà”. Affermazione degna di Berdjaev, il grande teorico del dissenso russo. La parte su Stalingrado è epica, meravigliosa.
Un capolavoro che ha avuto poca fortuna in Italia.
Ne ha avuta più in Francia. Da noi c’è poca propensione alla narrativa densa, culturalmente piena.
Ultimo.
Cime tempestose di Emily Brontë: la più grande storia d’amore mai scritta. Dove l’amore è crudele, violento, è l’esplosione che stravolge la vita. Come questa donna esile, che morì due anni dopo Cime tempestose, abbia potuto immaginare una storia così è strabiliante. Catherine e Heathcliff si amano, si odiano, si disprezzano, si inseguono, anche dopo la morte.
Di solito ai maschi la Brontë non piace. Come Jane Austen.
Questo accade perché i maschi conservano un fondo di pirlaggine. Pensano che Cime tempestose sia un romanzo rosa. Solo Dostoevskij dopo la Brontë riesce a raggiungere questa potenza esplosiva: è nitroglicerina pura, altro che rosa. Ho diritto a una piccola aggiunta?
Prego.
L’Iliade, riletta in questi giorni. I romantici tedeschi dicevano che è superiore all’Odissea perché “tocca il sublime”. Ed è vero. Achille ed Ettore si inseguono, fanno tre giri delle mura di Troia, e Omero dice “è come un sogno in cui quello che fugge non riesce mai a distaccare quello che lo insegue e quello che insegue non riesce mai a raggiungere quello che fugge”. Alla fine Ettore si ferma e in quel momento sull’Olimpo Zeus solleva la bilancia d’oro, il piatto su cui c’è la sorte di Ettore precipita. Atena, che protegge Achille, prende le sembianze di Deifobo, il fratello prediletto di Ettore e lo incita a combattere, ma quando Ettore si gira per farsi dare la lancia, non c’è più nessuno. In quel momento Ettore capisce che deve morire, però si batte lo stesso. La punta della lancia di Achille gli entra nel collo, ma Omero vuole che continui a parlare. Dice ad Achille: “Rendi il mio corpo ai miei genitori”. E quello gli risponde: “Se potessi ti taglierei la carne e la mangerei cruda”.