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 2020  marzo 20 Venerdì calendario

Tre missioni non impossibili

Per Enrico Letta (Repubblica del 15 marzo) il coronavirus potrebbe costituire una minaccia per l’euro e l’integrazione economica alla base dell’Unione europea. Timore condivisibile.Per delineare i possibili scenari che ci attendono è utile dividere la crisi in tre fasi. Ancora non si sa quando verrà il picco dell’epidemia, né quanto ci vorrà per tornare alla normalità, né quale sarà l’impatto economico. Ma se estrapoliamo dall’Europa il crollo a febbraio dell’attività manifatturiera in Cina, la recessione sarebbe la più severa del dopoguerra. Di fronte a tanta incertezza, la moneta è l’unica attività di valore certo: così, si liquidano gli investimenti facendo crollare tutti i mercati. La prima fase è quindi la crisi finanziaria. E si deve evitare che diventi una crisi bancaria, aggravando la recessione.
Per le banche italiane la fonte immediata di rischio sono i titoli di stato; per le francesi e tedesche, le posizioni in titoli derivati e strutturati. Con colpevole ritardo, e dopo dichiarazioni contraddittorie, la Bce ha finalmente messo in campo un piano di acquisti sul mercato, che ha dimezzato l’incremento subìto dallo spread dei Btp. Ha inoltre esteso linee di credito che permetteranno alle banche di rifinanziare posizioni strutturate difficilmente smobilizzabili, impedendo crisi di liquidità. Infine, la Fed ha riattivato gli swap di dollari anche con la Bce affinché possa finanziare l’esposizione in valuta americana delle banche europee. Più coordinamento e tempestività sarebbero stati auspicabili, ma le banche centrali hanno dimostrato di avere la capacità e gli strumenti per limitare i danni economici di una crisi finanziaria.
La seconda fase riguarda il crollo del reddito delle famiglie e la crisi di liquidità delle imprese a fronte della caduta dei ricavi e del mancato pagamento di crediti commerciali. Riferirsi alle passate recessioni è inappropriato. Un esempio più calzante è l’economia di guerra: una dislocazione di risorse economiche violenta e limitata nel tempo. Come nelle economie di guerra, la crisi può essere fronteggiata solo dallo Stato. Le banche non possono finanziare tutte le necessità di imprese e famiglie perché la regolamentazione le incentiva a usare il capitale per assorbire le sofferenze e i rischi che hanno già in portafoglio. Quindi deve essere lo Stato a farlo emettendo titoli, o indirettamente tramite garanzie.
Tutti i Paesi, seppure con modalità diverse, hanno adottato questo approccio lanciando piani di intervento pubblico. Qui, però, sorge il primo rischio per il futuro dell’Europa. Le capacità finanziarie degli Stati europei sono molto diverse. Il rischio è che la disparità di reddito tra gli Stati finanziariamente forti, come la Germania, e quelli deboli, come l’Italia, tenda ad allargarsi ulteriormente, minando una delle condizioni necessarie per la stabilità dell’unione monetaria e del mercato unico. È quindi questo il momento di introdurre qualche forma di condivisione dei rischi economici da coronavirus, per limitare una divaricazione di redditi che potrebbe risultare insostenibile. Non c’è tempo per creare nuove istituzioni. L’unica esistente con potere finanziario adeguato è il Mes, il fondo salva stati. È nato per altri scopi, ma basterebbe cambiare la condizionalità che il Mes prevede, limitando l’uso delle risorse al contrasto degli effetti del coronavirus, come Francia e Italia stanno proponendo. Su questa decisione si gioca molto del futuro europeo.
Ma è nella terza fase, quella della ricostruzione, che si gioca davvero il futuro dell’Unione. L’industria tecnologica uscirà ancora più rafforzata dalla crisi, aumentando il predominio di Stati Uniti e Cina, poiché è impensabile che l’Europa possa colmare il gap fin qui accumulato. Per non scivolare nell’irrilevanza, l’Europa dovrebbe puntare sui due settori dove ha un naturale vantaggio comparato: la sanità, sfruttando l’unicità del suo servizio universale; e l’ambiente, vista la maggiore sensibilità al tema degli europei.
Ma, a differenza dell’industria tecnologica, che ha richiesto un basso investimento iniziale di capitale fisico, sanità e ambiente ne richiedono in quantità ingenti. Questi capitali possono essere forniti dai cittadini, che pagano il prezzo del bene o la tariffa del servizio, dagli investitori privati e dallo Stato. Difficile pensare che i cittadini possano sostenere un tale sviluppo e, a differenza degli Stati Uniti, mancano in Europa gli investitori istituzionali e i mercati capaci di convogliare grandi risorse su investimenti di lungo respiro. Rimane lo Stato. Con due rischi. Il primo è che se i governi europei andranno ognuno per proprio conto, le disparità di reddito tra gli Stati finanziariamente forti e quelli deboli aumenterebbero irreversibilmente, con l’euro che rischierebbe di implodere. Il secondo è che andremmo sempre più verso una gestione pubblica dell’economia e barriere ai capitali, abbandonando un’economia aperta di mercato di cui conosciamo i vizi, ma anche le virtù.