Avvenire, 19 marzo 2020
L’inferno dell’islam brucerà in eterno?
Anche per l’islam l’inferno potrebbe essere vuoto. O avrebbe potuto esserlo, almeno. L’annientamento finale dei luoghi ultraterreni (non solo del fuoco in cui i colpevoli consumano la condanna, ma anche del giardino in cui i giusti godono di ineffabili delizie) è un tema lungamente discusso nel Medioevo islamico. Se ne occupano gli autori del cosiddetto Kalam, l’equivalente della nostra teologia fondamentale, come i cultori della Falsafa, che è il corrispettivo della filosofia. Si tratta di un dibattito poco conosciuto e ora ricostruito da Marco Demichelis, uno studioso italiano che svolge attività di ricerca a Pamplona, presso l’Universidad de Navarra. Uscito di recente da Bloomsbury Academic, il suo Salvation and Hell in Classical Islamic Thought (“Salvezza e inferno nel pensiero islamico classico”) è un saggio tanto erudito quanto ricco di spunti attuali. «Allah ci salverà tutti?», la domanda che fa da sottotitolo, proviene direttamente dalla tradizione indagata da Demichelis. «Contrariamente a quello che si ritiene – spiega – l’islam si è spesso interrogato sulla questione, che risulta strettamente legata a quella della durata dell’inferno».
Per quale motivo?
Il punto di partenza è rappresentato, come sempre, dal dettato del Corano, che assegna a Dio due attributi fondamentali: la giustizia e la misericordia. Dalla prima discende l’ineluttabilità del giudizio, dalla seconda la speranza del perdono. Non è necessariamente un’antitesi, né una contraddizione, ma una tensione che la riflessione delle origini ha sempre tenuto presente, sia pure adottando di volta in volta soluzioni differenti. Di per sé, però, questo non significa che il Corano non contempli l’eventualità dell’inferno. Al contrario, lo descrive in modo molto vivido, come luogo dell’estrema arsura e del caldo soffocante. È la peggior pena che un popolo del deserto potesse immaginare, così come un giardino rigoglioso è, per contrasto, l’immagine della perfetta beatitudine.
Eppure, non è detto che siano eterni, né l’uno né l’altro.
Il problema è proprio questo. Nell’undicesima sura, ai versetti 106–108, è contemplata l’ipotesi che Allah possa “decidere altrimenti”, facendo in modo che alla fine dei tempi l’intero mondo conosciuto venga annientato. Se così fosse, anche il giardino dei giusti e l’inferno dei dannati sarebbero destinati a svanire, con un esito analogo all’apocatastasi su cui si divide la teologia cristiana dei primi secoli. Nel 533 il Concilio di Costantinopoli respinge come eretica la dottrina della “ricapitolazione”, che era stata portata alle sue estreme conseguenze da Origene, ma di sicuro il concetto riesce a permeare in ambito islamico. Quella alla quale allude il Corano, a ogni buon conto, non è un’apocatastasi in senso stretto: nella sua imperscrutabilità Dio può decidere di annichilire il mondo, senza che per questo il mondo stesso si rigeneri da capo, come invece interpretato in ambito più mistico.
Chi è destinato all’inferno secondo l’islam?
La domanda è molto impegnativa, perché fin dalla generazione successiva a Muhammad i primi credenti si dividono in fazioni politiche, si combattono, non di rado si uccidono a vicenda. La conseguenza è che in una prima fase, la sensibilità corrente è,
se non permissiva, almeno possibilista: l’inferno esiste, appunto, ma non sappiamo a chi sia riservato. Gli stessi “popoli del Libro”, ossia gli ebrei e i cristiani, non vengono condannati in maniera esplicita, se non altro nei testi che analizzo nel mio libro e che vanno dall’VIII al XIV secolo. Anche nel Corano, inoltre, si afferma che ognuno sarà giudicato «secondo il proprio profeta» e che l’eventuale condanna dei popoli del Libro dipenderebbe solo dall’aver alterato la specifica rivelazione loro affidata.
Sì, ma questa è la posizione dei mistici…
I mistici sono i primi, già nel IX secolo, ad assumere un atteggiamento di tolleranza che comporta, di fatto, la prospettiva della salvezza universale, indipendentemente dalla fede professata da ciascuno. L’elaborazione teologico–filosofica procede con più lentezza, ma con esiti non meno interessanti.
Quali sono gli autori più rappresentativi?
Il più noto è senza dubbio quello di al–Ghazali, il grande pensatore persiano del XII secolo che imposta il problema sulla base della conoscenza, fino ad affermare che non può essere condannato all’inferno chi, per motivi storici o geografici, non abbia avuto cognizione degli insegnamenti del Corano. Una posizione che comporta un paradosso tutt’altro che trascurabile: a rigore, secondo al–Ghazali, solo i cattivi musulmani sono passibili di dannazione. Ma anche il modello della Città Virtuosa, proposto già nel X secolo da al–Farabi, prospetta la convivenza tra religione diverse. La comunità ideale si reggerebbe dunque sulla pacifica convivenza delle fedi e non corrisponderebbe alla sola umma musulmana.
Se queste sono le premesse, da dove viene il successivo irrigidimento dell’islam?
I fattori sono molti e difficili da districare l’uno dall’altro. Trovo particolarmente istruttiva la vicenda di Ibn Taymmiyya, il teologo del XIV secolo al quale oggi fanno appello con insistenza le correnti più rigoriste dell’islam wahabita. In realtà, se lette senza pregiudizio, le sue opere forniscono la rappresentazione più avanzata della Fana’ al–Nar, l’«estinzione delle fiamme» che comporta non soltanto l’ammissione del fatto che l’inferno abbia un carattere eminentemente purgativo, di temporanea punizione dei peccati commessi, ma anche che, proprio per questo, non possa essere considerato eterno. Esaurita la sua funzione, l’inferno scompare, le fiamme si estinguono e trionfa la misericordia di Dio.
È una visione che l’islam potrebbe nuovamente sposare?
Fino al Vaticano II anche nella Chiesa cattolica si faticava ad accettare l’idea che i non credenti potessero essere salvati. Nel Concilio, come sappiamo, ha avuto un ruolo decisivo la riscoperta e l’attualizzazione del pensiero patristico. Un simile ritorno alle fonti, purtroppo, non è immediatamente praticabile dall’islam attuale. Il secolare equilibrio multireligioso del Mediterraneo è stato compromesso molto in profondità dalle vicende degli ultimi due secoli che, anche a causa del colonialismo, hanno indotto una parte sempre più cospicua dell’islam ad arroccarsi in posizioni di assoluta intransigenza. Della modernità si accetta tutt’al più la patina esteriore, fatta di comodità e affarismo, e si rifiuta la sostanza più autentica, che porterebbe al dialogo, al rispetto reciproco, alla convivenza nella diversità.