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 2020  marzo 18 Mercoledì calendario

Barça-Napoli, la partita che non c’è

Stasera alle 21 farò una cosa apparentemente folle, ma che ha un senso profondo. In questi giorni che nulla hanno di normale non sarà certo una novità. Tra tanti che si affacciano ai balconi urlando a squarciagola e rigorosamente fuori sintonia vecchie canzoni degli Anni ’60, o picchiano mestoli di metallo contro pentole in una cacofonia allegra e disarticolata, o espongono lenzuola con arcobaleni che sembrano insensati diagrammi colorati, o cantano in lacrime con la mano sul cuore l’inno nazionale tra gerani e basilico non sembrerò tra i più pazzi, anche perché l’immagine che offrirò di me stesso sarà a esclusivo appannaggio dei familiari che alle mie follie sono tristemente abituati.
E del resto non ho intenzione di fare niente di eclatante o di rumoroso, nessun effetto speciale da spendere sui social. Farò qualcosa di semplice e di personale. Stasera, alle 21, mi collocherò sul divano davanti al televisore.
Spento.
Allungherò i piedi sul tavolino, mi provvederò di birra fredda e di patatine fritte che peraltro la tensione mi impedirà di consumare. Pretenderò un interrogativo silenzio, staccherò il telefonino, chiuderò la porta. Perché a quell’ora c’è Barcellona-Napoli. Fermi, non digitate numeri d’emergenza: lo so benissimo che l’incontro, come ogni altro match in questo continente, è stato opportunamente rinviato a data da destinarsi e che questa data non sarà determinata a breve.
Il dieci e il Dieci
Ma io ho bisogno di mantenermi ancorato alla realtà, di sentirmi con un piede nel mondo normale, di poter tornare indietro: quindi ho intenzione di guardarmi la partita. E ascolterò il pre, con dotti commentatori che analizzano le formazioni schierate. I nomi blaugrana faranno paura, anche con le numerose assenze: il risultato dell’andata sarà tutt’altro che rassicurante, un pareggio con gol che normalmente è un viatico per chi gioca il ritorno in casa. E che casa: un meraviglioso Camp Nou, regno del più grande calciatore dei tempi moderni, un dieci argentino di bassa statura che in qualche modo chiude il cerchio con un altro Dieci argentino, di enorme statura, che in altre epoche ci rese felici.
Gli azzurri andranno col tridente leggero, Callejon Mertens Insigne: quello che ha fatto la fortuna di Sarri, che ci ha portato a tanto così da un titolo, che ha ispirato non un modulo ma una coreografia. Li vedrò accedere, coi compagni, fieri e nobili come spartani alle Termopili, consapevoli di una evidente inferiorità ma forti degli sfavori del pronostico. Mi chiederò quanti napoletani ci siano allo stadio, e sulle ultime parole della sigla della Champions saprò che sono quanti bastano, perché il loro urlo belluino mi stringerà il pericardio in un pugno. I familiari si chiederanno il perché del sorriso sotto gli occhi chiusi, ma non darò spiegazioni: i nostri sono in campo, e se la giocheranno.
L’arbitro, un inglese o un tedesco, fischierà l’inizio. E loro cominceranno un terribile assedio, per chiuderla presto e non dover avere patemi. I nostri saranno corti e compatti, stretti in 25 metri, dieci ragionieri maliziosi davanti a un portiere con pochi capelli. Barricate? Catenaccio? Non vi permettete: sarà un sano pragmatismo all’italiana, con meditate ripartenze che alimenteranno un cauto ottimismo e metteranno a rischio le coronarie, maledetta fissazione ad avviare l’azione dal basso, con quei passaggetti che transitano a un millimetro dalla punta del piede dell’avversario.
Segneranno. Certo che segneranno. Al dodicesimo tentativo, su una distrazione di uno dei terzini, triangolazione stretta e gol. Non Messi, lui sarà marcato benissimo: lo farà il francese biondo, con quegli odiosi ricciolini al vento. La sorda imprecazione a occhi chiusi davanti al televisore spento comporterà un perplesso sguardo della gatta, indifferente alle umane passioni. Io invece vedrò la grinta del mister, che scuote i nostri smarriti dal boato dello stadio più tronfio del pianeta, che sembrerà ancora più separatista. Il primo tempo finirà così, con loro qualificati e noi eliminati: io berrò un sorso di birra ormai tiepida, pensando con dolore che se uno è destinato a soffrire soffre pure nei sogni: ma non aprirò gli occhi, perché partita finisce quando arbitro fischia, diceva il mai abbastanza compianto Vujadin.
Un grido: Manolas!
Si riparte, e pronti via segnano ancora. Stavolta sarà un calcio piazzato, un fallo evitabile e nemmeno così univoco, trenta metri e palla nel sette. Non c’è niente da fare, se uno ha i campioni in squadra vince. Stavolta non emetto più di un sospiro, il destino si compie e chi deve vincere vince.È chiusa? Sì, è chiusa. Ma qualcosa succede. Come se si fossero scrollati un compito di dosso, come se si fossero liberati di un abito stretto, quello della vittima sacrificale, i nostri cominciano a giocare. E palla dopo palla, contrasto duro dopo contrasto duro, ecco undici Gattusi in campo. Gli dei traballano, temono: non sono abituati a doversi difendere in casa, e lo sanno. Vengono a galla polemiche e contrasti, spaccature di spogliatoio e malesseri economici. Li colpiamo con la stessa arma, una triangolazione stretta, e il gol che fa di Ciro Dries il cannoniere più prolifico della storia azzurra ci rimette in partita. E manca ancora un quarto d’ora. Li sento, i nostri a Barcellona. Urlano come disperati, senza riprendere fiato. Il settore ospiti ribolle, gli steward si guardano perplessi, nessuno sta al suo posto. Loro contrattaccano e ci fanno tremare, il portiere con capigliatura postelegrafonica toglie un paio di palloni dall’insidia. Passano loro, così: ma a me basterà l’esercizio della dignità. Sarò fiero dei miei ragazzi, con gli occhi chiusi sul divano davanti al televisore spento. Andrà bene anche così, certo.
Ma una parte riposta del subconscio mi spiega che se è un sogno, allora il sogno è mio: e che posso farne quello che credo. Ragion per cui all’ultimo soffio il capitano, il piccolo dolce capitano che ha donato centomila euro all’ospedale che combatte il virus, tenterà una sortita individuale che per poco non andrà a segno; per poco, perché il loro dannato portiere tedesco la smanaccia in angolo, ultimo giro di lancetta, lo fai battere? Lo fa battere.
Il greco. Il meraviglioso, immenso greco che gli fece un’iniezione di dolorosa umiltà in giallorosso, gliela rifarà in azzurro. Con uno stacco a due piedi e una zuccata perfetta, Manolas, io ti amo in sogno come nella realtà. E dal balcone aperto, in un personale individuale flash mob, da una casa del Vomero partirà un urlo di felice vittoria. E sarà solo un urlo fra tanti, in queste pazze sere ai tempi del virus nella città folle.