Noi siamo tutti un po’ Lizzie Benson, la protagonista. Fa la bibliotecaria a New York, non sappiamo in che anno ma nel futuro e un passo in più verso il disastro; è sposata a un uomo che ha perduto le ambizioni e di cui non è innamorata, ha un figlio piccolo e un fratello drogato; s’innamora di un giornalista. Recita per lui i propri talenti in caso di emergenza: «Di recente ho imparato a costruire una candela che brucia a lungo con una lattina di tonno (sott’olio, non al naturale), ho imparato a riconoscere un noce nero, e so che se necessario si può vivere mangiando lo strato interno della scorza di betulla...». Lizzie non smette di funzionare e agisce per proteggere gli affetti, sapendo però che non c’è un senso nelle sue azioni, perché è bersagliata da messaggi, oracoli e annunci sulla fine incombente. Una domanda irrompe in mezzo ai pensieri di Lizzie: se fosse necessario fuggire, quanti chilometri potrei percorrere con il bambino in braccio? È come se, per scrivere Tempo variabile , Jenny Offill avesse usato i nostri pensieri e, benché sembri impossibile, con quel tanto di humour da darci la dose giusta, non paralizzante, di terrore.
Perché l’ha scritto?
«Chi non vive il rischio diretto di un’apocalisse ambientale, è sospeso in un limbo. Intellettualmente convinto che la situazione sia grave, senza provare l’emozione connessa. Ho scritto il romanzo perché voglio che la crisi si senta e non si pensi soltanto».
È un tentativo di sfuggire all’oppressione dei dati, portando la questione ad altezza d’uomo?
«Esatto: sono esausta. Gli scenari apocalittici immobilizzano e, come sta succedendo adesso con la pandemia, la paura è un’emozione così potente da oscurare le altre. C’è però anche una possibile gioia nell’immaginare come potrebbe essere un mondo in cui noi vorremmo vivere. E per questo ho provato a esplorare varie possibilità di venire a patti con il cambiamento climatico. Ognuno deve trovare una propria via, ma poi serve un’azione collettiva. Ho sempre pensato che servirebbe un movimento chiamato "Attivismo per ipocriti": ognuno faccia ciò che può ovunque si trovi».
L’ossessione di Lizzie di salvare persone e cose è un modo per affrontare la sorte?
«È quello che consigliano gli psicologi per sfidare il disastro. Appena cominci a pensare ad aiutare il prossimo, trasformi la situazione. Non sei più soltanto la vittima, sei un salvatore. Compiere il proprio lavoro distrae dal terrore esistenziale».
Qual è la funzione di uno stile spesso interrotto, a blocchetti?
«Lascia spazio al lettore perché collabori con me. La speranza è che le pause consentano a immagini e idee il tempo necessario a sedimentare e amplificarsi. Sono simili ai dossi artificiali sulle strade, un invito a rallentare e osservare».
Ai tempi della falsificabilità dell’esperienza e della delusione della politica, la letteratura è un’alternativa?
«Abbiamo bisogno di tutte le arti perché è necessario controllare il potere dell’immaginazione e ricordare che esistono altri modi per vivere rispetto a quelli che conosciamo».
Lizzie è abitata da una coscienza a più strati. È perché da quando l’orizzonte degli eventi è penetrato all’interno, viviamo un numero crescente di esperienze contemporanee?
«Il giorno in cui ho smesso di pretendere che non stessi vivendo su più livelli (spavento per il clima un momento, le normali preoccupazioni il successivo), mi si è chiarita la mente e ho scoperto nuove strade per il mio attivismo. Costa fatica mentirci e io ho smesso di pretendere di non essere spaventata dal collasso ecologico».
Per arricchire la lettura del romanzo, lei ha creato un sito: obligatorynoteofhope.com.
«È un luogo dove raccogliere le tante azioni piene di speranza in cui mi sono imbattuta mentre scrivevo il romanzo».
Il titolo originale è "Weather". L’inglese offre una variante promettente, perché il verbo to wheater significa resistere, sopravvivere. Problema e soluzione nella stessa parola?
«È la mia speranza, che il titolo possa contenere entrambi i significati. Dobbiamo resistere insieme a questi tempi difficili».