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 2020  marzo 17 Martedì calendario

Così può cambiare il Gioco del potere

Immaginiamo che la Terra sia stata appena eretta a protettorato di un altro pianeta, battezzato Bonum Per Se, giacché popolato di esseri benevoli e altruisti, preoccupati di noi più che di se stessi. Soprattutto, incapaci di pensare che noi si sia diversi da loro. Quando a Bonum Per Se giungerà notizia che un’ignota pandemia sta seminando diverse vittime e molta angoscia sulla Terra, i suoi leader, mentre disporranno con fervida acribia gli aiuti agli sventurati terrestri, saranno confortati dalla certezza che anche qui male comune implichi reciproco soccorso. Sicché nella risposta corale dei terrestri sarà il seme della salvezza. Non stabilisce forse la Costituzione della Repubblica bonumense che “gioia divisa è gioia doppia, dolore diviso mezzo dolore”?
Non osiamo concepire quale acuta sofferenza colpirà i bonumensi quando scopriranno che nella logica terrestre la pandemia non scatena solidarietà globale ma, al meglio, selettiva. E che tale selezione accentua, anziché sedare, la competizione fra le comunità in cui i terrestri sono organizzati. Stati contro Stati, regioni contro regioni, bande contro bande. Eppure, a confortare la fiducia dei bonumensi, nel contratto che istituiva il benevolo protettorato i terrestri avevano voluto fosse iscritto in esergo quel passo dello statuto dell’Onu in cui si fissa la “eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne, delle nazioni grandi e piccole”.
In attesa dei soccorsi interplanetari, rimettiamo piede sulla Terra. Constatiamo che alla pandemia non corrisponde la solidarietà senza frontiere. Al contrario. Si alzano muri, sollevano ponti, chiudono passi. Fratture talvolta giustificate con l’intento di frenare la diffusione del virus, talaltra mero riflesso di maligni quanto immarcescibili stereotipi riguardo al vicino. Specie se meridionale.
Trarre pur approssimativi bilanci da questo sabba balcanizzante è prematuro. Ma la nevrosi mediatica che emette una sentenza al giorno – ormai al minuto secondo – non ne esce per niente scoraggiata. Ecco che il coronavirus viene catalogato dai medesimi media prima “Cernobyl di Xi Jinping” poi “Cernobyl di Trump”. Tutto nel volgere di un batter di ciglia. Con lo stesso, definitivo tono.
Allo sguardo geopolitico la pandemia non pare affa tto pandemica. Seguendo una traiettoria che dalla Cina spinge verso Occidente, oggi concentrandosi sull’Italia e sull’Europa, non trascurando l’America, il contagio di massa risulta asincrono. Con diversi e variabili impatti economici, sociali e geopolitici. Esiste un fuso geovirale per cui quando è notte in Cina spunta l’alba in Italia, e viceversa. Né è scritto che una volta completato con relativa equanimità il giro del mondo, il virus mutante non riattecchisca dove s’era inizialmente incistato. Il carattere geopoliticamente selettivo dell’epidemia accentua la competizione nel mondo della cosiddetta globalizzazione che qualcuno, forse per compiacere i bonumensi, vuole retto dal diritto internazionale.
Ammesso ma non concesso che “globalizzazione” sia più e meglio di un passepartout cui ognuno darà il (non) senso che crede, nelle fasi di crisi le potenze non si vergognano di esibirsi nude. Per quel che sono, non per quel che raccontano di essere. Giocatrici a somma zero, specie quando ti propongono il win win.
Lo smascheramento vale soprattutto per chi non ha assorbito il trauma del declino, evidente agli altri. Ovvero per i soggetti associati nell’Unione Europea. “Leuropa”, per dirlo all’italiana. Finora la reazione degli europei al coronavirus spicca per reciproca idiosincrasia. Ci rifiutiamo, al massimo centelliniamo, gli aiuti. A noi italiani, e non solo, si sbattono le frontiere in faccia, come nemmeno durante la fase acuta delle migrazioni da Sud.
Meglio non figurarci che cosa accadrebbe se la piena immigratoria stagionale, fra giugno e settembre, coincidesse con l’ulteriore diffusione del virus. “Leuropa” meriterebbe d’essere derubricata a espressione geografica – come un tempo non malevolmente Metternich definiva l’Italia – se non fosse impossibile certificarne financo i confini geografici. Gli Stati nazionali si confermano invece riferimento di prima e ultima istanza per le comunità che li esprimono. In attesa che gli storici futuri stabiliscano con il senno del poi la cifra dell’emergenza in corso, almeno questa lezione possiamo ritenere: una nazione ha bisogno di istituzioni legittimate ed efficienti per vivere. E per riscoprirsi tale nelle congiunture che ne stabiliscono o dissolvono la ragion d’essere. Per la sorpresa di molti, l’Italia si sta confermando nazione. Ma nulla ne garantisce il futuro. Converrà usare questa crisi per rivedere, rafforzare e accentrare i poteri dello Stato, per fissare le disperse responsabilità di chi lo serve, oggi di fatto non imputabili. Nemmeno i bonumensi ci salveranno.